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L’ultimo esorcismo

Da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

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Il reverendo Cotton Marcus arriva in una sperduta fattoria della Louisiana, pensando di dover compiere il solito esorcismo fasullo su pazienti affetti non da possessione demoniaca, bensì da fanatismo religioso e gravi disturbi psicologici. Stavolta però qualcosa è diverso: Louis, fervente cristiano, ha contattato il predicatore come ultima risorsa, poiché convinto che sua figlia Nell sia posseduta da un demone da esorcizzare prima che la situazione, già di per sé terrificante, si trasformi in una tragedia inimmaginabile.

Cotton è un uomo schiacciato dal peso della propria coscienza, pentito per gli anni passati a rubare soldi a persone disperate e credulone; per questo decide di filmare un documentario-confessione di quello che sarà il suo ultimo finto esorcismo. Purtroppo per lui in questo caso di ‘finto’ c’è ben poco…

In programmazione al 28° Torino Film Festival (sezione Rapporto Confidenziale), L’ultimo esorcismo è un indigesto minestrone dei più tipici horror afferenti al sottogenere della ‘possessione’. Il film di Daniel Stamm si rivela man mano per quello che è, un guazzabuglio di “citazioni” cinematografiche che mettono in evidenza l’assoluta povertà di idee su cui si basa il progetto. La storia inizia come The Blair Witch Project (1999), si sviluppa con varie situazioni che rimandano chiaramente a Paranormal Activity (2009), per terminare poi come l’indimenticabile Rosemary’s Baby (1968), solo che stavolta non abbiamo la fortuna di avere Roman Polanski dietro la macchina da presa. Sarebbe eccessivo accusare gli autori di plagio, poiché da quando è nato il cinema esistono pellicole che copiano altre, sperando di sfruttarne la formula vincente, tuttavia si può affermare, con una certa tranquillità, che il film di Daniel Stamm è un prodotto senza un briciolo di originalità.

Alla stregua di The Blair Witch Project e Cloverfield, anche L’ultimo esorcismo parte dall’assunto che la storia sia vista da persone che ritrovano la registrazione degli eventi, dopo la morte dei protagonisti. Tutto sembrerebbe già scritto e facile da eseguire, invece la confusione registica e la poca scaltrezza dei realizzatori si manifestano nelle note musicali, sparate improvvisamente nell’usurato tentativo di far saltare il pubblico sulla poltrona…altro che mockumentary!

L’ultimo esorcismo è un ibrido noioso, privo di qualsiasi pathos, caratterizzato da uno stile pretestuoso, utilizzato solo in virtù del fatto che si tratta di una formula mostratasi vincente negli anni e che il regista, con queste sue parole, sembra considerare persino una trovata originale: «Il cameraman esiste realmente nel film, è un personaggio al suo interno, rappresenta il pubblico, è una cosa che amo molto perché obbliga a un’intimità che qualche volta potrebbe risultare imbarazzante. E credo che per un film horror sia una cosa geniale, quando riesci ad avvicinare il pubblico più di quanto questo non vorrebbe». Che dire? Se ne è convinto lui, bene per lui. Ciononostante, abbiamo seri dubbi su quanto gli spettatori – figuriamoci poi la critica – possano sentirsi in qualche modo coinvolti da una storia che non solo non appassiona, ma commette il più grande ‘crimine’ per un film di questo genere, cioè non spaventare praticamente mai.

La trama si complica gradualmente, presentando alcuni spunti sociologici che potrebbero anche essere interessanti, ma che non vengono approfonditi. Eppure l’ambientazione scelta favorirebbe vari momenti di riflessione, visto che si tratta della gretta e superstiziosa provincia del profondo sud degli Stati Uniti, dove è ancora pervicacemente presente il razzismo bianco e la cultura creola col suo Vudù.

La pellicola ha l’unica, seppur grande, fortuna di incappare nell’attrice giusta, una Ashley Bell che, al posto di sbraitare con l’immancabile bava alla bocca, si limita per lo più a fissare la telecamera con sguardi talmente maligni che da soli salverebbero quasi il film, ma che purtroppo non bastano a dare senso a un prodotto che vale davvero poco. Solamente discreto è invece Patrick Fabian nei panni di un predicatore tutto sermoni televisivi e litanie recitate a mo’ di jingle pubblicitario, che non conosce veramente il Male, e anzi sembra persino credere poco in Dio. Anche in questo caso si ricade nello stereotipo, con la presenza dell’esorcista senza fede che ha forse trovato la sua ‘ultima’ degna rappresentazione anni fa con Stigmate (1999), interessante lavoro a firma di Rupert Wainwright.

Riccardo Rosati


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