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L’ultimo film di CHANTAL AKERMAN: No Home Movie (recensione)

Creato il 06 ottobre 2015 da Luigilocatelli

L’ultimo film di Chantal Akerman, la regista belga scomparsa oggi 6 ottobre a 65 anni. Ripubblico la recensione di No Home Movie scritta dopo la proiezione in concorso al Locarno Film Festival lo scorso agosto. Il film fondamentale di Chantal Akerman, quello che l’ha fatta entrare nella storia del cinema, resta Jeanne Dielman, 23, quai du commerce, 1080 Bruxelles  del 1975. get-2No Home Movie di Chantal Akerman. Locarno Film Festival 2015, concorso internazionale.
get-1Grande Dame della cineavanguardia (il suo Jeanne Dielmann è considerato un film-svolta nella storia del cinema), la belga Chantal Akerman stavolta gira un film sulla madre novantenne. Una signora di modi compiti e assoluta lucidità la quale parecchio racconta e ancora di più potrebbe raccontare. Peccato che la figlia infarcisca il film di vezzi vetero-sperimentalistici: lunghe sequenze di deserti e arbusti flagellati dal vento, camera fissa su dettagli della casa. Ma perché? Voto 5
getLa massima delusione del concorso. Perché Chantal Akerman è circonfusa dell’aureola di grande dame della cineavanguardia europea, grazie a pratiche cinematografiche cominciate negli anni Sessanta e soprattutto grazie a un suo film, l’ormai molto lontano Jeanne Dielman, 23 quai du Commerce, 1080 Bruxelles (cronaca minuziosa e impassibile dei giorni di una casalinga e prostituta part time, un anti-Belle de jour), che gode della fama di capolavoro assoluto. Tanto da essere presente nella classifica del magazine britannico Sight & Sound (stilata sulla base delle preferenze di duemila critici di tutto il mondo) sui più grandi film di sempre al 36esimo posto. Scusate se è poco. Ora, da un’autrice che ha piazzato un colpo del genere è lecito aspettarsi molto, qualcosa che ti spalanchi mondi e visioni ecc. ecc. Macché, qui Akerman gira un lodevole film familiare, un home movie (alla faccia del titolo che lo vorrebbe virare verso dimensioni meno di famiglia) in cui intervista, interroga, interloquisce con la immagino novantenne mamma. Solo che lo infarcisce e appesantisce con vezzi e manierismi fastidiosissimi da ormai antica avanguardia. Pensare che la signora madre è assai simpatica, intelligente, vispa, di modi assai coltivati, e anche quando parla a distanza via skype con Chantal Akerman si attiene a una forma di buona educazione incantevole, e difatti la sequenza migliore è quella degli interminabili saluti, di una telefonata che non si riesce a chiudere causa convenevoli con la figlia a New York. Purtroppo Akerman, come dichiara il titolo, non vuole farsi intrappolare dalla semplice forma-cinema dell’home movie che le sarà parsa tropo antiaìquata e qualunque, ed è un peccato, il peccato che impiomba questo suo lavoro. Come se non si fidasse dell’invece interessantissimo romanzo familiare aggiunge, interpola, immette qua e là defatiganti sequenze che nulla c’entrano con la madre, come, in apertuta, quei disgraziati dieci minuti e fors’anche più a camera tenuta fissa su un arbusto battuto dal vento. E poi, quel deserto (almeno ci dicesse dov’è: macché, secondo le regole della massima punitività avanguardistiche non si danno informazioni e spieghe “perché l’immagine parla”) ripreso più volte in ammorbanti carrellate senza fine. Per non parlare della camera che, fissa o mobile ma preferibilmente fissa (è più chic), ci consegna dettagli della casa vuota, o che al massimo cattura attraverso una porta semichiusa l’ombra della madre (o di altri?, e anche qui son minuti e minuti di estenuante vuoto narrativo). Che poi son vecchissimi codici della vecchia avanguardia anni Sesanta, per capirci l’Andy Warhol che riprendeva per ore il Chelsea Hotel. Ma oggi, che senso ha santo Dio? E perché Akerman non ha concesso tutto lo spazio del film alla madre? Che parecchio racconta, ma molto di più potrebbe dirci. Anche perché la sua non è stata una vita qualunque. Figlia di ebrei polacchi, portata fortunatamente dal padre in Belgio nel 1939, la signora ricorda lucidissamemnte di quando i nazisti arrivarono anche lì, di come la persecuzione fosse cominciata in modo sommesso, per non spaventare, per meglio ingannare e intrappolare. “All’inizio i tedeschi erano gentili, poi arrivò l’imposizione della stella gialla”, poi quello che sappiamo. Parecchio interessanti gli scambi madre-figlia sull’ebraismo, sul rispetto o meno delle regole alimentari, sulla partecipazione ai momenti rituali. “A un certo punto papà, che era socialista, si stancò, ci impedì di andare in sinagoga”, racconta sempre la madre. E noi, che vorremmo sapere ancora e ancora, restiamo delusi quando invece la Chantal ci fa veder mezz’ore di deserti e arbusti flagellati. Questo non è un filmino familiare, ci ammoniscae l’Autrice. Magari lo fosse stato.


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