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L’ultimo libro di Milo De Angelis

Da Narcyso

Il testo si può leggere sul numero 102 della rivista IL SEGNALE.

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NELLA STORIA

Milo De Angelis, “Incontri e agguati”, Mondadori 2015

*

Come si ode la pietra, come
te, gli inverni. Silenzio. Il drappello
sta passando, un uomo per volta. Tu che
compi l’esecuzione
tu, trucidato che
schivi.

(Nella Storia, in “Terra del viso”)

*

I prigionieri, hai detto, trovarono
un varco nella cella. Alcuni
morirono assiderati, di notte.
Altri invece, bruciando i loro vestiti,
si salvarono. Ma perché la sentinella
tacque? E’ vero che sparò solo sui morti?

(Colloquio con il padre I, in “Terra del viso)

Una volta i poeti avevano bisogno di una musa da invocare prima di mettersi a scrivere. Si trattava di sentirsi massimamente conformi alla materia cui si era stati chiamati ad esprimersi, ponendosi dentro le retoriche dei generi, e soprattutto dentro la sintassi della comunicazione.

Archiviata la schematizzazione dell’ispirazione, la poesia si è rivoltata contro la musa e ne ha proclamata una che non ha volto né nome, riconoscendola nelle macerie del fallimento, nei lacerti dell’esperienza personale.

C’è sempre da chiedersi, allora, quando si legge un poeta, non più quale musa dia senso alla sua parola, ma piuttosto con quale musa innominata esso sia in tenzone, in acerbo dialogo o in tragico duello.

È innegabile che la poesia di Milo De Angelis riconosca nelle parola la permanenza di un Nulla, lo stesso che abita la realtà sgretolata di tutte le cose; qualcosa che avrà il sopravvento malgrado noi, malgrado la supponenza delle strutture e l’autorità del tempo che sempre ritorna nella ritualità della maschera sociale; un sentimento del tempo, dunque, senza il quale non possiamo avere alcuna idea del tragico.

Una volta compresa l’essenza del significato della vita, che è poi l’essenza di ogni poetica, all’opera non rimane che dichiarare con variazioni di forme e contenuti, l’unica Verità scoperta nel tempo dell’adolescenza e che continua ad abitarci come un sigillo.

L’opera, dunque, si pone in forma di infinita variazione, vestita di Nulla noi la godiamo non per ciò che ci dice ma per la bellezza che da essa emana in forme, nei paesaggi mutevoli – eppure quanto necessari – dell’anima.

Qual è, dunque, la musa silenziosa contro la quale la poesia di Milo De Angelis gioca la sua partita? È Clio, così come ce la descrive, con tutti i suoi attributi, ma senza rivelarla, il pittore Jan Vermeer: un libro, (simbolo della Storia) una tromba (simbolo della Gloria), un serto di alloro in testa.

Clio si presenta, nell’opera di De Angelis, come l’Altro: il contesto, e cioè il dove, il quando abitiamo, verso cui il Nulla imbastisce una guerra che non ammette superstiti, si veda la descrizione della peste in Lucrezio, tradotto da Milo De Angelis per evidente concomitanza di pensiero; ma anche tutto l’immaginario presente nella sua poesia connesso ai riti dell’agone, a quell’istante perfetto della rivincita che si realizza con la lotta e con la vittoria e che solo una comunità e la sua idea di giudizio e di misura possono autorizzare. Clio è, forse, nella sua idea di poesia, una società ideale e rituale, piuttosto che lo Stato. È la tenzone, fortissima, a riconoscere una misura universale, piuttosto che una regola sociale.

Clio sono gli Altri, le persone che ci circondano, le dinamiche che con queste instauriamo; la descrizione della città, nei suoi libri, oscilla tra uno spazio metafisico quasi senza confini – le periferie, l’ipotetico mare che circonda Milano – oppure uno spazio ristrettissimo: le stanze, gli ospedali e, in quest’ultimo libro, dichiaratamente, il carcere.

Le armi della lotta sono il tentativo di neutralizzare la Storia mettendo in campo la potenza delle immagini statiche, le esperienze tradotte nella verità del mito, nella conoscenza perfetta dell’istante. Mi riferisco alle ben note figure d’adolescenza, numi tutelari e pietre miliari che segnano i passaggi tra un libro e l’altro come a voler custodire la parola dai vani cambiamenti degli stili e dalle lusinghe delle poetiche alla moda, ancorandola ai teoremi, alle traduzioni da una lingua remota a una lingua parlata, ai rettangoli metafisici d’asfalto; alle ancore, insomma, di un tempo che sempre ritorna in noi.

Avviene, poi, che in “Incontri e agguati”, questo album di figure si arricchisca degli acquisti più recenti dell’esperienza. Così, accanto al guizzo dello “studente strepitoso”, di Mario, “sdraiato tra i macchinari del respiro”, della “sacra ragazzina” che “affonda nella risaia”, leggiamo anche di Angeli Lumelli, “il maestro che aggrava ogni gesto dentro se stesso”, p. 42; della donna che il poeta guarda e che vuole morire “nel regno chiaro della scelta”, p. 48, le “pastiglie nascoste nella borsa”, p. 49, svanita, “a poco a poco, tra i fili d’erba”, p. 49. E poi Viviana, che “guarda il tramonto (…) una donna sola, / nella dolcezza delle nebbie”, p. 51; figure anestetizzate dal dolore e poste nell’atlante del cielo, simili a costellazioni, ad indicare il senso riassuntivo delle esperienze della vita.

Clio è, soprattutto, l’Altro che abita in noi stessi, nei diversi momenti della nostra vita. I tanti altri che siamo stati e che ancora saremo. “Ti ricordi di me? / Io abito qui”, p. 35; “Mi sono allontanato, vedi, dal campo / delle nostre partite iridescenti”, p. 38. Sono, forse, tra i più belli, questi testi in cui Milo De Angelis evoca un se stesso doloroso, senza compianto: ” Ti ritrovo alla stazione di Gerico / magro come un rasoio e ulcerato da un chiodo / che tu chiamavi poesia poesia poesia…”, p.43.

Così il nostro nome più vero si aggrappa al quadrante dell’orologio e viene trascinato inesorabilmente nel tempo circolare che ci invecchia, nella promessa che un altro nome verrà in un’altra vita non più nostra ma di tutti: “Il ragazzo eterno che risiede / in te gioca e gioca ancora e insegue un pallone / che lo porta nel grande urlo dello stadio, nell’aperto / sorriso del mondo”, p. 47.

Clio, a volte, prende il nome di un figlio – si veda, in un testo di “Incontri e agguati” come discendano sul figlio, per motivi misteriosissimi, le personali stimmate che un dio ci consegna già dall’inizio in forma di pegno: “Questa sera ruota la vena / dell’universo e io esco, come vedi, / dalla mia pietra per parlarti ancora / della vita, di me e di te, della tua vita / che osservo dai grandi notturni e ti scruto e sento / un vuoto mai estinto nella fronte, un vuoto / torrenziale che ti agitava nel rosso dei giochi / e adesso ritorna e ancora ritorna”, p. 31.

Altro è quello che ci abita, che ci ha abitato, quindi lo spaesamento e la perdita, lo sdoppiamento descritto in un testo di “Millimetri”, “Animali / dai piedi bianchi e cieli / succhiano questa stanza / e le donne / soffocate in pace: / placidi sono i lacci / come una neve in voi, più vostra, più / colpita. La mela / è morta. / Con macchie di china tu dicevi / nascetemi in stringere / infiniti, in piangere, / guardateli quando / scavano questa gola: / scendi, pavimento”, o in altre dislocazioni o perturbamenti di tipo sensoriale, soprattutto in “Somiglianze”.

È sempre il cerchio Clio, e cioè la vita che ci costringe a stare qui, nelle faticose regole della con/divisione. È tensione etica ed epica verso una giustezza, un vivere che ci preservi dall’attacco degli uomini e del destino.

La tenzone con la Storia, allora, è apertamente dichiarata laddove l’Altro appare finalmente nella persona del tu, malgrado ancora non si sia sciolto del tutto il sentimento di avvertire l’incontro come agguato, come tradimento. È proprio in un primo colloquio con la morte, “Questa morte è un’officina / ci lavoro da anni e anni”, p. 9, che si palesa il timore di perdere la partita e con essa l’unico modo che ogni artista ha per riscattarsi, cioè il dominio della propria arte.

La lotta con la Storia, dunque, non può essere risolta in forma di arresa totale; questo credo sia un pensiero già risolto come scelta a voler abitare ancora il qui, e l’ora, a partire da TS, il celebre testo appartenente a “Somiglianze”: “Ognuno di voi avrà sentito / il morbido sonno, il vortice dolcissimo / che si adagia sul letto / e poi l’albero, la scorza, l’alga / gli occhi non resistono / e i flaconi non sono più minacciosi…”. Risalita la china di un bianco indistinto, ci riappare la vita. La parola, in fondo, è la traccia subliminale che la Storia è interessata a preservare per la propria autobiografia – scrivendo di noi stessi, noi scriviamo anche degli altri, del tu che siamo negli altri -.

La Storia, insomma, non vuole e non può permettere la morte della poesia. La poesia ha bisogno di essere parola viva, non traccia archeologica, riassunto, ricordanza. La parola ci appartiene, nel senso che non è nostra, ma di tutti e, proclamandola, noi ne riconosciamo, in qualche modo misterioso, l'”utilità”. Essa ci fa sobbalzare, ci fa stare discosti; perché nessuna grande parola può essere pronunciata veramente abitando totalmente la casa degli uomini. La poesia pronunciata per la prima volta è sempre un gesto che avviene in uno stato di pericolo, un incontro che potrebbe tramutarsi in un agguato; un silenzio che si espone.

La data di questo agguato, che è anche un incontro, è il 1967, “dopo una lunga guerra / di trincea, dopo una guerra di metri / guadagnati e persi, iniziai / una trattativa con la morte”, p. 11. Parlando in presa diretta, quindi nella logica stringente del tu, del dialogo, la morte proclama una serie di sconfitte che appaiono come enunciati definitivi, un’uscita di scena nella logica senza appigli della tragedia, del patos: “Sarai una sillaba senza luce…”, p. 17; “Morirai invaso dalle domande (…) formerai a poco a poco la parola niente”, p. 18.

Il poeta non sente più il bisogno di annotare l’ora, il giorno”; la Storia mostra la verità di un corpo votato allo sgretolamento, al dominio della peste. Nello sfondo, in una terra di passaggio tra la Storia e il Nulla, c’è “un oracolo sepolto” le cui parole non sono comprese. Perché l’oracolo non spiega, non chiarisce, suggerisce, piuttosto. Perché la vera ossessione è quella di “sbagliare la traduzione” dalla lingua delle stelle alla lingua degli uomini – questo fa la poesia -.

Non si tratta di un dialogo socratico, di una maieutica della verità celata da riportare alla luce, ma di due monologhi che si affrontano: “Nessuno, morte, ti conosce meglio di me / nessuno ti ha frugata in tutto il corpo…”, p. 20.

Poi, ad un certo punto, tra questi due monologhi disperati e in guerra, avviene il balzo. Avviene, cioè, la consapevolezza che può esistere una menzogna anche nella resa, nel dare in pasto la propria opera all’oscurità, senza conoscerne la risposta. È in questo momento di resistenza che la povera vita chiede di essere cantata, e conservata, almeno nel canto contratto della poesia:

“Non puoi immaginare, amico mio, quante cose / restano nascoste in una fine, non puoi / capire il pietrame triturato / che diventa la tua vita / eppure era bella, lo ricordo…”, p. 22.

“Non so, credimi, se riuscirò. Ascolta, / vienimi vicino, posso dirti che il sangue / zampilla scuro ma non riesco a cancellarmi / c’è un silenzio fatato che in me respira, / un sussurro di quaderni scritti a mano”, p. 23.

Avviene, insomma, non la svolta epica della domanda – questa, come si è detto, è sempre ribadita dall’inizio – ma la percezione di una fraternità, di un calore che passa dalla parola “amico” e lo fa rimbalzare verso un sentimenti più collettivo; aspetto inedito nella poesia di Milo De Angelis, che qui si palesa con un afflato che ci porta alla commozione e ci fa sentire, più netta, la voce, sempre soffocata in lui, del coro.

La parola non rinuncia, non si arrende; essa, seppure in queste latitudini estreme, ha bisogno di ritrovare un fuscello a cui aggrapparsi, “sono / un povero fiore di fiume / che si è aggrappato alla poesia”, p.27. Anche in prossimità della morte, non appare finalmente l’arcano svelato, ma “solo materia, materia”.

La Storia, dunque, ci abita fino al precipizio, fino all’istante in cui percepiamo la resa senza ancora arrenderci del tutto. Rimaniamo più vicini agli occhi di chi ci guarda, ricordandoci la casa e la patria, piuttosto che un niente che non possiamo percepire in quanto ancora corpo. Non tocca a noi entrare per spiegare, finalmente, ma solo essere ricevuti nella casa di un ospite misterioso.

C’è da chiedersi, a questo punto, se il poemetto finale del libro, racconto di un omicidio dentro le mura di un carcere, certamente una delle vette raggiunte dalla poesia di Milo De Angelis, non descriva la condizione ontologica dell’essere, una sua prigionia alla nascita, ma la resa alla Storia, allo spazio fortificato della città, dopo aver abbandonato una condizione più virginale, più orfica. Ma in questo luogo, dice Milo De Angelis, “non è prevista / la stagione dei dodici raccolti / qui ogni mese può essere infinito / o mancare per sempre”, p. 56. Il carcere è forse allora il luogo in cui la Storia ci sospende e ci tiene bloccati all’immagine di una colpa che forse non è dipesa da noi, che abbiamo subito perché un sigillo ci è stato impresso sulla fronte fin dall’inizio.

Il carcere è il volto rovesciato di Clio, perché la maschera rituale del sociale sia preservata. Il carcere segna uno steccato tra chi sta fuori, nella Storia, e chi invece deve subire il doppio rituale del perdono e dell’estinzione della pena, “Qui sciamano preti operosi / hanno labbra gonfie / si aggirano nel loro terreno di caccia / si nutrono con le croste di ogni colpa / benedicono tutto indifferenti / indifferenti preparano la deportazione”, p. 57.

Quando il racconto di questo omicidio improvvisamente ha inizio, si capisce da subito che il nome di questo sigillo impresso sulla fronte, è Sirio: ” Ieri in cielo ho visto Sirio, amico mio, / e ho pensato che quello era il mio soprannome, il nome di un ragazzo solitario / che additava un piumaggio di nuvole / e chiedeva quando torneranno, quando / tornerà quel visibilio di viole e di fiaccole. / Non devi amarla – risposero – non devi / amarla più”, p.60.

Qualcosa, dunque, che abita fuori di noi, fuori dalla Storia, ci dice che cosa dobbiamo fare, quale strada perigliosa dobbiamo percorrere. È la natura irrazionale del male, del danno, che abita un dirupo dentro noi stessi, un confine in cui non sappiamo se appartenere alle leggi degli uomini o a quelle delle stelle.

La descrizione della donna uccisa avviene così, come in un rituale sacrificale, piuttosto che nella retorica della cronaca; ci dice di un gesto che non ha senso e che la Storia non può comprendere. Ci dice che, ogni senso non risiede in una sua utilità ma nella mera consacrazione, nel puro accadere: “noi siamo la forma destinata / a quel gesto magistrale”, p. 62; perché infine, in noi stessi, “si delinea il primogenito / viso smarrito in una follia di tulipani”; perché “le lettere del nome amato ritornano / e ci chiamano per sempre”, p. 64.

Ricorda, questa “splendida uccisa”, un’altra figura simile apparsa in un libro di questi anni, “L’ablazione”, di Paolo Donini; il gesto, infine, trasferisce tutta la sua potenza nella sfera in cui le cose abitano un loro tempo più sincero, immobile, senza più cause. Il dolore, così, si fa immagine splendente del nostro abitare le contingenze della Storia, la donna “si aggira come un oltraggio alla morte (…) esce nel mondo / e mostra alle strade il nostro errore e la collera / di noi che abbiamo ucciso la cosa più amata”, p. 65.

L’esecuzione forse si è fatta salvezza, possibilità di guardare noi stessi, il doppio che ci abita; e forse di perdonarci.
Sebastiano Aglieco


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