Nell’introduzione ad un loro recente saggio, pubblicato da Einaudi, Sylos Labini e Ruffolo scrivono che il loro libro è
<< un omaggio al benessere e alla giustizia sociale e porta con sé la speranza di sollecitare nuovamente quelle tendenze democratiche che sono state alla base dell’Età dell’Oro, il più lungo periodo di crescita e di emancipazione sociale della storia contemporanea. In quella fase che durò circa trent’anni, dalla fine della Seconda guerra mondiale all’inizio degli anni Settanta, il sistema capitalistico riuscì a realizzare una cooperazione costruttiva con la democrazia e con le ragioni e gli ideali dei lavoratori.>>
Sylos L. e Ruffolo ammettono che capitalismo e democrazia entrano spesso in conflitto tra loro perché i capitalisti <<cercano di appropriarsi del plusvalore per aumentare la propria ricchezza a scapito della società in generale.>> Un approccio del genere, oltre a non aver nulla a che fare con il pensiero di Marx, appare sostanzialmente non esplicativo perché sembra prescindere dalla necessità che i gruppi dominanti hanno di appropriarsi del pluslavoro – plusprodotto dei lavoratori subordinati sin dalle epoche in cui le cosiddette società segmentarie lasciarono il posto alle formazioni sociali “stratificate”. Sostanzialmente sensata sembra invece la considerazione che vede, dopo il 1945, l’ Europa cedere il proprio ruolo egemonico e la propria leadership agli Usa così che
<<sotto la guida degli Stati Uniti si realizzò quel grande compromesso tra capitalismo e democrazia che assicurò crescita e benessere nei successivi trent’anni.>>
Difatti i due economisti riconoscono che l’”occidente” si organizzò a partire dall’egemonia della superpotenza americana – dando vita a una fase capitalistica monocentrica, seppure bipolare per la presenza del grande antagonista sovietico – riuscendo a sviluppare un sistema che a partire dal Piano Marshall e dalla centralità monetaria del dollaro, legato a sua volta all’oro da una parità fissa, permise una grandiosa apertura degli scambi commerciali che sostennero e alimentarono la crescita delle economie europee. Particolarmente significativo risultò il successo del Welfare State nell’Europa settentrionale e occidentale con tassi di disoccupazione mai raggiunti nella storia del capitalismo contemporaneo, salari reali che registrarono incrementi cospicui e un notevole incremento numerico delle cosiddette classi medie. Ma questo periodo aureo doveva terminare con gli avvenimenti che solitamente vengono ricordati: lo shock petrolifero che avrebbe determinato << un’enorme redistribuzione della ricchezza tra i Paesi ricchi dell’Occidente e i Paesi del Medio Oriente>> e il relativo reinvestimento di questi “petrodollari “ nei grandi mercati finanziari internazionali; si parlò allora di stagflazione, ovverosia di inflazione dei prezzi al consumo (legati a quelli delle materie prime) e deflazione della domanda. In realtà i mutamenti cruciali, che vengono soltanto accennati dai due economisti, riguardano il fatto che i Paesi del vecchio continente (e il Giappone), all’inizio degli anni Settanta erano ormai diventati competitivi e quindi rivali in termini economici rispetto agli Usa, con conseguenze abbastanza limitate, almeno inizialmente, sul piano politico. Il momento cruciale si presentò quando De Gaulle chiese agli Stati Uniti di svalutare il dollaro rispetto all’oro: a quel punto gli americani abolirono la convertibilità del dollaro in oro; la Pax americana e l’egemonia Usa in Occidente manifestava, così, le prime incrinature. Valerio Castronovo in un articolo-recensione sul Sole 24 ore del 30.12.2012 sviluppa ulteriormente il discorso attorno alle tematiche del saggio in questione. Lo storico ricorda che il grande sviluppo del secondo dopoguerra nasceva – oltre che dai fattori di stabilità dei mercati delle merci e del denaro, e dal controllo del sistema dei cambi – da un livello non eccessivo di integrazione internazionale delle economie nazionali, con la limitazione dei trasferimenti di capitali da un Paese all’altro, tale da permettere agli stati nazionali di ottenere risultati efficaci dalle misure di politica economica da loro portate avanti. Castronovo scrive, poi, che dopo la crisi degli anni Settanta
<< avrebbe preso il via, secondo Ruffolo e Sylos L., una vera e propria “controffensiva capitalistica”, orchestrata dai leader di Stati Uniti e Gran Bretagna, […] a scapito del lavoro e dell’equità sociale. […]Ronald Reagan e Margaret Thatcher […] adottarono politiche di governo che si tradussero in una privatizzazione indiscriminata dei servizi pubblici e nella riduzione delle aliquote fiscali più elevate per invogliare i ceti più facoltosi ad investire.>>
Lo storico però si smarca dai due economisti ricordando che l’offensiva conservatrice era anche il risultato dell’inefficacia delle politiche dell’amministrazione Carter negli Usa e dei laburisti nel Regno Unito. A questo si aggiungeva un “gonfiamento” dello Stato sociale che arrivava a sprecare risorse garantendo servizi gratuiti anche ai redditi più alti, l’estinzione-implosione del cosiddetto “socialismo reale” e la convinzione errata in alcuni paesi europei e in Giappone, fino agli anni Novanta, che si potesse comunque implementare la crescita tramite dispendiose innovazioni di processo e il sostegno della spesa statale in deficit. La grande crisi giapponese che ne seguì rimane ancora paradigmatica. Per quanto riguarda la cosiddetta “finanziarizzazione” dell’economia, Castronovo mette al centro le politiche monetarie Usa con la scelta della Federal Reserve di Greenspan di favorire l’afflusso sul mercato mobiliare di una gran massa di capitali che in buona parte erano rappresentati da titoli il cui valore risultava virtuale e aleatorio. Durante l’amministrazione Clinton, come è noto, non solo vennero incrementate le operazioni finanziarie della banche commerciali ma non venne stabilita nessuna forma di monitoraggio su transazioni finanziarie, molto rischiose, con elevati rendimenti a breve. Il resto è storia recente: George Bush Jr. all’insegna di un “capitalismo compassionevole” diede il via a quell’accesso al credito per i ceti meno abbienti che doveva sfociare nella bolla dei “subprime” la quale ha spianato la strada al tracollo del 2008. Castronovo però non crede, come pensano Ruffolo e Sylos L., all’avvento di un “Età del capitalismo finanziario” e motiva questa convinzione con la scelta negli Usa, successivamente al salvataggio delle banche, di fare pulizia nei bilanci delle banche stesse con l’azzeramento degli azionisti e l’imposizione di precisi vincoli ai compensi dei loro manager. Nella Ue, infine, è stato stabilito dal sistema unico di vigilanza bancaria di affidare alla Bce la supervisione delle principali banche e la possibilità di intervenire sulle altre. Una citazione di La Grassa da uno dei suoi recenti interventi teorici penso sia il miglior commento riguardo alla presunta “preminenza” della finanza che si pretenderebbe fattore decisivo “di ultima istanza” nella crisi attuale.
<<Si parte sempre dall’accusa ai finanzieri, in specie ai banchieri, di aver esagerato nella loro specifica funzione per ingordigia di profitti. Li si rende anche responsabili di una serie di non ottemperanze a date regole, sempre più complicate, che si sono andate formulando e consolidando nella lunga storia del capitalismo. Qualche volta si parla persino di un comportamento “non etico” da parte di chi svolge funzioni di notevole rilevanza in merito alla fornitura dei mezzi essenziali per l’attività produttiva. In un sistema economico fondato sulla generalità degli scambi mercantili, nessuna produzione, condotta da singoli “soggetti” (le unità produttive denominate imprese), può essere iniziata se non a partire dal possesso di denaro (o equipollente) con cui acquistare i “fattori” produttivi; e buona parte di questo mezzo monetario è fornita appunto dal sistema bancario, nervatura centrale di quella che viene complessivamente detta finanza.
Di conseguenza, quando si manifesta il tipico carattere capitalistico della crisi – l’ingorgo di merci invendute con conseguente diminuzione dell’attività produttiva – il fenomeno che si manifesta con maggiore evidenza, indicato allora come causa dell’evento, è appunto il “cavallo che non beve”; fuor di metafora, ciò significa che l’imprenditore non chiede più denaro in prestito poiché gli mancano le occasioni di proficuo investimento. Egli si trova inoltre in difficoltà nel restituire i prestiti già ottenuti in passato quando ancora l’economia “tirava” e la domanda era sostenuta. Data l’autonomia di funzione acquisita dal settore bancario rispetto a quello industriale, il primo (l’apparato finanziario) usa l’influenza anche politica di cui ormai gode per ovviare ai peggiori effetti che la crisi ha su di esso…>>.
Più volte su questo blog si è fatto, poi, riferimento al fatto che è la mancanza di capacità di coordinamento di un paese-guida a rendere difficile, se non impossibile la riproduzione ottimale dei cicli del capitale e la realizzazione degli esiti della produzione; il multipolarismo che avanza si manifesta anche nella pretesa di aree economiche che si pretendono alleate di imporre agli “amici” una politica propagandata come virtuosa ma in realtà adatta ad indebolire il partner per tentare di migliorare la propria condizione (come gli Usa di Obama nei confronti dell’Europa).
Mauro T. 01.01.2013