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L'ultimo romantico: uno struggente noir torinese, Francesco Gallo, Almeno gli alberi hanno le foglie
Creato il 20 aprile 2013 da Consolata @consolanzaFrancesco Gallo è un esordiente che non sembra affatto tale. Di lui so pochissimo, è un giovanotto simpatico e disinvolto nato nel 1977, vive a Torino, come recita la quarta di copertina “lavora in giacca e cravatta, ma deve ancora capire che cosa fare della propria vita”, e ha vinto l’edizione 2011 del Premio Alga con Almeno gli alberi hanno le foglie, dietro al quale ci devono essere anni di scrittura e soprattutto di letture. È un noir appassionante e super romantico, dal passo lento, che ci dice molto sulla generazione che oggi è sulla trentina e al tempo in cui si svolge il romanzo, presumibilmente il 2008 dagli accenni all’Onda studentesca e alle manifestazioni contro la riforma Gelmini, era variamente scaglionata lungo la ventina; è anche un romanzo di formazione, come qualsiasi romanzo che ha un giovane come protagonista e io narrante. Che è Gabriele Pazienza (un omaggio al grande indimenticato Andrea, ma anche una caratterizzazione che in un certo senso non stona affatto con il personaggio), in possesso di una laurea, precariamente impiegato in un’agenzia di investigazioni dopo una serie di lavori persi o rifiutati. Gli viene affidato il primo caso di pedinamento: deve seguire Lucia, studentessa figlia di un ricchissimo borghese che vorrebbe saperne di più sulle attività che la tengono fuori casa notte e giorno. Presto Gabriele capisce che la storia non è così semplice, Lucia è un mistero molto più complesso del previsto, il padre non la conta giusta. Comincia così per lui un’avventura che gli sconvolgerà la vita, portandolo a scelte senza ritorno. Gabriele è disperato e allo stesso tempo dotato di principi e convinzioni, pronto a giocarsi l’esistenza per il bel gesto, l’atto eroico che persegue una giustizia personale e ingiusta, è l’ultima incantevole personificazione del superomismo autolesionista. Non cerca di rendersi simpatico a nessuno, tranne forse ai bambini. Non è ribelle, è lucido, forte e critico, un perfetto eroe romantico che alla fine sceglie il beau geste perché qualsiasi ritorno alla vita “normale” sarebbe un abbassarsi. Importanti, e molto interessanti, sono le figure femminili, identificabili nella femme fatale, la mamma (anzi due, c’è anche la mamma vera) e la compagna di giochi. Le donne giovani sono sempre caratterizzate dall’aggettivo piccolo, piccolo mento, piccole mani, e dal contrasto tra la forza morale, caratteriale, e la vulnerabilità fisica. Le vediamo sovente addormentate, ne ammiriamo collo e nuca. Per contro, il mondo maschile è legato a una virilità romantica e tutto sommato limitante: con gli uomini si compete, si beve, ci si scazzotta, si scherza; con le donne non si scherza mai, si scopa e si parla. I vari personaggi giovani sono studenti, fuoricorso, sottoccupati e precari. L’università e gli studi non hanno più nessun valore, non sono né occasione di riscatto né costituiscono una barriera sociale da opporre ai meno privilegiati, la laurea non porta da nessuna parte, la si prende per poi buttarla via lavorando come manovale in nero in un cantiere. Belle, benissimo delineate con una sorta di affettuosa commozione, le figure sullo sfondo della madre e di Vincenzo, l’operaio meridionale con le mani grosse che le ha restituito la serenità dopo anni difficili. I padri, nel complesso, meglio perderli che trovarli. La grande differenza tra l’“essere contro” di Gabriele e le ribellioni giovanili che hanno percorso la seconda metà del ‘900 è che lui è solo, il suo gesto è isolato, non cerca la condivisione né un’eco sociale, non conosce l’esaltante coscienza di fare parte di un movimento, anzi: sia lui che i suoi coetanei sono individui e basta. Torna più di una volta il ricordo del G8 di Genova, dove Gabriele ha sperimentato la violenza e l’ottusità del potere, e forse ancora si è sentito parte di un’esperienza collettiva, ma questo è già il passato. Le manifestazioni in cui si trova coinvolto inseguendo Lucia non sono tali, non si manifesta niente, non sentiamo slogan, sono solo occasioni per contrapporsi faccia a faccia, petto a petto con la polizia, conquistarsi l’ambigua medaglia dei lividi da manganellata. Infatti, chiosa Gabriele non si sa se più stoico o più disincantato, Gli studenti furono sconfitti, la riforma si fece. I precari furono sconfitti, la riforma non si fece. Gabriele non ha cose da chiedere, utopie, aspirazioni: l’odio per l’“orco” che rappresenta per lui tutto quanto è disprezzabile al mondo, e l’amore disperato e assoluto per Lucia sono altrettanto improvvisi, inesplicabili, privi di sostrato, di pensiero, di motivazioni basate sulla conoscenza: puro, romantico abbandono all’istinto della coscienza che riconosce solo a se stessa il diritto di giudicare. L’ambientazione in una Torino straordinariamente reale dove si mescolano San Salvario e Crimea, Corso Regina e i centri sociali, Porta Nuova vista dall’alto di un cavalcavia e le birrerie, le gradinate di Palazzo Nuovo e il Valentino ai primi caldi, è affascinante come un basso continuo che non prevarica mai la linea melodica principale. Piangemmo insieme, sperando che il bambino non si svegliasse e scoprisse quanto può essere brutale la vita di due ragazzi qualunque in questa città che qualunque non sarà mai. Fondamentale anche la colonna sonora che accompagna tutta la vicenda. Infine, dal mio punto di vista strettamente personale due meriti in più: primo, l’orribile segreto che emerge dal passato è almeno una variazione sul tema più abusato e stucchevole degli ultimi anni, e i personaggi, pur praticandolo spesso e volentieri, non usano mai l’orripilante espressione “fare sesso”. Il romanticismo e il superomismo perdente sanno molto bene come scegliere un linguaggio all’altezza del proprio valore.
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