Anna Lombroso per il Simplicissimus
No, non è rimasto tutto come il 9 febbraio di 4 anni fa. È peggio.
È peggio perché la crisi, la inesorabilità – così dicono – della rinuncia ai diritti del lavoro imporrebbe anche quella ai diritti fondamentali, perché l’alienazioni dei beni comuni, giustificherebbe anche quella della dignità, che non è solo individuale, ma patrimonio dei popoli e dell’umanità.
È peggio perché ogni giorno di più ci accorgiamo che le nostre inclinazioni, la prerogativa di vivere con coscienza e onore e fierezza la nostra esistenza fino alla fine, morte compresa, i modi del nostro amore, sono una merce di scambio nei negoziati delle coalizioni, trattabili e patteggiabili e dunque facilmente rinunciabili.
È peggio perché questo contesto incivile e antidemocratico rende particolarmente appetibile il sostegno, di chi dichiara, con irriducibile tracotanza, di rappresentare ed esprimere una morale comune, un sentire condiviso e un sentimento religioso, lontani dai capisaldi della civiltà, quanto dai proclamati principi e valori di solidarietà, pietas, amore.
Oggi scrivevo che ormai esigere i propri diritti pare ai poteri forti e al ceto politico e culturale al suo servizio, un’usurpazione intollerabile: pare che siamo condannati non solo al lavoro o alla sua mancanza secondo le loro regole indiscutibili, ma anche alle loro modalità per l’esistenza in terra, ai loro costumi, dai quali peraltro, solo loro, possono esimersi o trasgredire.
Pensavamo di esserci affrancati dal determinismo, ci illudevamo che la biologia non fosse più un destino che imponeva lo svolgersi delle esistenza di donne e uomini e le condizionava, sani, malati, bianchi, neri, credevamo che fosse venuto il tempo, grazie alla conoscenza e alle leggi, di aprire uno spazio nuovo e più libero alle decisioni delle persone, immaginavamo che l’affermazione della radicale autonomia degli individui conducesse al riconoscimento del diritto al governo della propria vita.
Invece di pari passo con la limitazione dell’autodeterminazione di interi popoli, con la riduzione della sovranità di Stati, si è venuti meno all’obbligo di garantire ai cittadini il diritto di disporre del proprio corpo, suscettibile di ridiventare oggetto di servitù, merce di scambio, forza lavoro precaria da trasferire come bestiame dove il padrone vuole.
Ha ragione chi dice che anche la giurisprudenza recente riduce la pienezza della persona per esaltare la dimensione della produzione, del consumo e del consenso, quella dell’homo economicus più che dell’uomo. E non stupisce che uno degli argomenti usati 4 anni fa dall’infamia oscurantista, incivile e antidemocratica consistesse nell’accusa al padre di Eluana Englaro di volersi liberare di un onere economico, oltre che di una responsabilità.
Nel suo recente e luminoso testo “Il diritto di avere diritti”, Rodotà ricorda un corso di diritto civile dell’Ottocento, di Aubry e Rau, che a proposito di “patrimonio del proletariato” scriveva che ogni persona “ha necessariamente un patrimonio, anche se effettivamente non possiede nulla”. Quella ricchezza risiede nei diritti, nei doveri, nella possibilità di accedere a qualsiasi bene, di agire nella socialità. Ed è quella ricchezza che ostinatamente ci vogliono togliere secondo le leggi scritte e non dettate da una ideologia che combina due teocrazie, religione e mercato, improvvidamente, iniquamente e non casualmente alleate in una fase di crisi che coinvolge ambedue, per l’eclissi del sacro e per l’indole suicida del capitale.
Voglio ricordare le parole di Walter Benjamin: “Falsa e miserabile è la tesi che l’esistenza sarebbe superiore all’esistenza giusta, se esistenza non vuol dire altro che la nuda vita”, a una sopravvivenza che non possiede più pensiero, ma solo sofferenza, che non possiede più consapevolezza, ma solo subalternità, che non possiede più poteri, ma diventa oggetto di poteri esterni.