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L’uomo che manca – Giovanni Dozzini

Creato il 11 giugno 2012 da Viadeiserpenti @viadeiserpenti

L'uomo che manca - Giovanni Dozzini

Recensione di Eleonora Rossi

Dramma al cantiere.
Incidente sul lavoro a Nocera: operaio in fin di vita
L’operaio è precipitato dal secondo piano mentre stava montando un’impalcatura con la piattaforma mobile. Un cedimento strutturale e il distacco di uno dei tiranti potrebbe essere stata la causa che ha poi fatto collassare la struttura metallica.

Questo è il titolo d’apertura di un quotidiano locale e l’operaio di cui parla si chiama Altim Popi. Nell’articolo non c’è scritto, ma il suo ultimo sguardo, prima di cadere nel vuoto e rimanere infilzato su un palo, lo rivolge a Goran, ragazzo macedone, uno in gamba, non come l’altro, l’italiano, che cominciava a bere vino fin dalle nove di mattina.
Altim è un albanese che ha lasciato il suo paese per venire in Italia. Ha trentanove anni, due figli, una moglie. Lavorava in un’impresa edile e quella mattina, come tutte le mattine, aveva iniziato la sua giornata mentre fuori era ancora buio. È «un uomo che non è morto attraversando un mare intero su una nave zeppa di gente coi capelli arruffati e le camicie a scacchi» ma che (probabilmente) «morirà su un letto d’ospedale con il ventre spappolato e le ossa spezzate e tutto il male che può fare al tuo corpo cadere da un cielo d’altezza».
Altim è uno di quegli individui che vivono in modo silenzioso tra l’indifferenza di chi gli sta intorno, e che morirebbero persino nell’indifferenza se solo la propria morte non intralciasse i piani di qualcuno, se non sfiorasse gli interessi di altri.
La cronaca classifica simili episodi come «incidenti sul lavoro» oppure, più candidamente li chiama «morti bianche», ma al di là di titoli eclatanti e tanto effimeri da sbiadire in poco tempo, per l’opinione pubblica sono questioni di poco interesse.
Giovanni Dozzini decide invece di partire proprio da questo tragico fatto di nera per scrivere il suo secondo libro. Come ambientazione sceglie Perugia e i suoi dintorni: i vicoli, il corso e gli interni dei quattrocenteschi palazzi del potere nel centro storico della città, la periferia dove sorge il nuovo ospedale cittadino. «L’ospedale Santa Maria della Misericordia era un mostro sempre sveglio. Da alcuni dei punti più alti della città lo si poteva vedere, in lontananza, ergersi sulla piana poco oltre lo sperone della collina che conduceva a San Sisto, al di là della distesa di palazzacci che s’allargava oltre la stazione. Erano enormi scatole di cemento e vetro messe l’una accanto all’altra, che di notte apparivano come una sorta di stazione spaziale in avaria precipitata sulla Terra». E ancora si sposta tra le impalcature di un cantiere di un borgo di campagna, per le stradine piene di cumoli di detriti di una Nocera ancora in ricostruzione dopo il terremoto del ’97.
È una realtà periferica e provinciale come tante in Italia ma che lo scrittore conosce bene: Perugia è la città dove è nato e vissuto, ha studiato e dove lavora come editor e giornalista. Sono luoghi in cui si muove agilmente, che gli permettono di tracciare con precisione una topografia più che mai vivida e, allo stesso tempo, che si prestano a perfetta metafora dell’Italia. L’atmosfera che ritrae, inoltre, è caratterizzata da un marzo ostile e sconfortante – la pioggia e il vento incessanti, la nebbia che avvolge ogni cosa – ed è in correlazione con il mondo interiore degli uomini e delle donne che vi compaiono: «Sotto, il quartiere che risaliva fino alla sommità da cui lei lo stava ammirando sembrava avvolto in un’atmosfera torva e come malata. Ancora più su, oltre la linea dell’orizzonte più prossimo, quella che di norma percorreva la cima del Subasio e si dilungava sugli alti colli che conducevano fino a Spoleto, non si vedeva il profilo innevato dei monti Sibillini. Con la pioggia, era inevitabile. Lo sapevo, pensò. Illusa. Che curi i morti dalla morte e cerco i monti nella pioggia. Vide distintamente le ombre che si muovevano in fondo ai suoi occhi, vide la faccia dell’avvocato e vide – non sentì, ma vide – quelle sue parole senza umanità e compassione».
È proprio l’indagine sull’umanità a conferire all’opera la sua dimensione narrativa e letteraria. È la ricerca dell’uomo – che s’intreccia inevitabilmente con l’inchiesta giornalistica e con quella giudiziaria dove non mancano mistero e colpi di scena – che l’autore vuole portare avanti spingendosi finanche alla deriva in cui a volte la stessa umanità sembra essere finita.
Altim diventa, inconsapevole, il centro attorno al quale gravitano (per circa una settimana dall’incidente) diverse persone, sospese come anime in pena attorno al suo letto in una stanza del reparto di terapia intensiva: ognuna dipendente dal suo destino e dalla sua vita che è come una morte.
Dopo una sorta di prologo in cui i personaggi sono presentati uno a uno, lo scrittore compone il suo romanzo mettendo insieme le loro vicende. Inizia a seguirli, si avvicina all’uno o all’altro fino a penetrarne l’intimità, ci restituisce i loro punti di vista, ci comunica i tormenti che li corrodono, ci fa ascoltare l’eco delle loro voci.
Ascolta e raccoglie così la voce del povero Altim poco prima che iniziasse tutto, che finisse tutto; la voce lontana di Jonilda, sua moglie, santa e strega per quel suo occhio cieco e rosso che le deforma il bel volto. Una donna fuori dal tempo, estranea, custode di una dignità e di un modo di affrontare il dolore che hanno radici remote: «Io non lo so se le donne, dalle nostre parti, sarebbero più in grado di fare quello che sta facendo lei per il marito» dice un’infermiera. «La vedi lì, che aspetta, e te lo domandi per forza. Questa povera gente che è rimasta indietro con la Storia ha ancora quelle attenzioni antiche che noialtri non abbiamo più già da un po’». La vocina di Inri, il figlio più piccolo della coppia albanese, condannato a essere orfano e che si perde lungo gli immensi corridoi dell’ospedale; e poi quelle di Marta, la giovane dottoressa piena di ideali e di Alessandro De Falco, l’ambizioso avvocato difensore dell’imprenditore edile per cui Altim lavorava.
È De Falco, forse, il personaggio più complicato. Cinico e maldestro, è pieno di contraddizioni e turbamenti. Quello che un giorno, dopo un pasto veloce, scomodo e solitario, non si riconosce più nella figura riflessa sul vetro di una vecchia cabina telefonica e che si sveglia di notte quasi soffocato dai propri fantasmi: «Nel silenzio del sonno si aprì un varco il tamburo arrembante del cuore, pulsando forsennatamente appena sotto la gola. Alessandro aprì gli occhi con violenza, come se quel rimbombo venisse da fuori, e lui potesse vederlo. […] Il cuore batteva il suo tempo come ci fosse una battaglia da annunciare. Al dio che ci ha voluto mortali, pensò. Al dio che ci ha voluto mortali, sentì pronunciare la sua voce da un angolo remoto della coscienza». Ed è sempre lui che riesce a dire:
«Ti fa pena l’albanese, De Falco?»
«Cosa?»
«L’albanese, ho detto. Ti fa pena?»
De Falco abbassò gli occhi, li nascose tra la terra umida e scura che separava i suoi piedi. Mi fa pena, si chiese.
«No», rispose.
Poi c’è l’Uomo che manca, si rivolge direttamente al lettore e parla in prima persona in un flusso di coscienza che si interseca con la narrazione ma rimanendo sempre ben distinto, distaccato.
Il maggior pregio di questo romanzo breve – scritto con una lingua accurata e precisa, con una prosa a tratti cruda e dettagliatissima, espressione di una letteratura piuttosto realistica, e che poggia su una struttura funzionale e solida – è riuscire con lucidità a svogere un impegno sociale e a trattare un tema arduo come quello delle morti sul lavoro (e tutto ciò che ad esso è legato e che rimane sommerso) senza impantanarsi nella retorica. Riesce a farlo, così come  passare dalla semplice cronaca alla dimensione letteraria, perché Dozzini sceglie di raccontare le vicende umane che sono alla base degli eventi, immergendosi completamente per cogliere la complessità del reale.

Nota sull’autore
Giovanni Dozzini è nato a Perugia nel 1978. Si è laureato in giurisprudenza e ha lavorato a Barcellona, Urbino e Roma per poi tornare, a trent’anni, nella sua città. Ha scritto due romanzi: Il cinese della piazza del pino pubblicato nel 2005 dalla casa editrice perugina Midgard Editore – presso la quale attualmente lavora come editor – e L’uomo che manca uscito a ottobre 2011 per Lantana. Scrive anche per diversi quotidiani locali e nazionali. È appassionato di musica e le sue recensioni appaiono sul sito Ondarock.

Per approfondire:
Ascolta l’intervista a Giovanni Dozzini su
Fahreneit
Leggi la recensione su Mangialibri

Giovanni Dozzini – L’uomo che manca
Lantana, 2012
pp. 158, euro 15


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