E, per festeggiare a dovere Halloween, ecco a voi un racconto del terrore per scrittori sensibili
(tenere alla larga da esordienti impressionabili ed editori cardiopatici)
L’uomo aveva sempre desiderato diventare uno scrittore famoso. Era il suo unico sogno: la fila per un suo autografo, le folle in delirio, i contratti firmati per i diritti cinematografici, le interviste, le foto… l’uomo passava ore a esercitarsi per scrivere una firma con dedica in pochi secondi, sorrideva allo specchio immaginando finte telecamere intente a riprenderlo mentre parlava di Lautréamont e Majakovskij con i suoi fan adoranti e riempiva quaderni e quaderni di citazioni che avrebbe snocciolato qui e lì nelle interviste, o come introduzione ai suoi grandi bestseller. L’uomo ce la metteva tutta, insomma, per diventare uno scrittore famoso, tranne scrivere. La scrittura era la sua bestia nera, la sua nemesi assoluta. Era un paradosso vivente come un attore muto o un pittore cieco. Tuttavia erano esistiti e ancora esistevano attori muti che recitavano in lingua dei segni o si davano al mimo, e in un glorioso passato c’erano stati anche pittori ciechi. Beethoven aveva composto la Nona ormai completamente sordo. Uomini senza gambe scalavano l’Everest. Tutto era possibile per tutti, insomma, tranne che per lui: perché si può recitare senza voce e dipingere senza occhi, ma essere scrittori senza scrivere andava oltre l’impossibile.
I sogni dell’uomo non erano privi di fondamento: era dotato di una grande fantasia, ed era capace di inventare storie meravigliose che, tuttavia, rimanevano tali solo nella sua testa. Aveva talento, ma non lo sfruttava; l’ego e la sete di gloria gli avevano essiccato l’anima e dentro era vuoto come un deserto. Non uno scampolo di vera grandezza aveva attecchito in lui. Aveva ancora qualche traccia di talento, ormai vizza e inutile come una foglia morta su un marciapiede in autunno. Uno scrocchio finale se calpestato da una scarpa, e niente più.
Un giorno, al tramonto, nel delirio della cascina dove viveva circondato da sogni e quaderni bianchi, l’uomo ricevette la visita di un vecchietto sconosciuto che reggeva a fatica un borsone rigonfio. Questi gli disse che si era perso e che il cielo ormai scuro annunciava una tempesta in arrivo; e che la prospettiva di stare da solo, senza riparo, in un bosco di notte, durante un temporale, non lo attirava particolarmente. Offrì all’uomo del denaro in cambio di ospitalità, ma questi rifiutò perché voleva che l’uomo fosse suo ospite. E, mentre lo faceva accomodare, già pensava a quale libro dedicargli, e al momento in cui avrebbe raccontato ai suoi nipoti “L’ho conosciuto, vi dico! Viveva in una cascina nel bosco e mi ha salvato dalla pioggia! Non ha voluto soldi da me, mi ha ospitato per bontà d’animo!”.
L’uomo narrò al vecchio di tutte le avventure che non aveva mai scritto, e di tutto quello che avrebbe voluto fare una volta diventato uno scrittore famoso e affermato. Il vecchietto annuiva in silenzio, la sua espressione un misto di divertimento e compassione che si accentuava quando l’uomo gli confidò, non senza vergogna, che nonostante i grandi sogni era sempre stato incapace di scrivere.
Rimasero in silenzio mentre la notte calava e, con essa, cominciava a manifestarsi la bufera: il vecchio aveva avuto ragione a preoccuparsi, e aveva fatto bene a rivolgersi all’uomo. Ascoltarono per molto tempo la pioggia abbattersi sul tetto della cascina e il vento ululare nella notte; e, pian piano, mentre dal tetto di tegole e fango cominciavano a cadere copiosi rivoli d’acqua e l’uomo cominciava a coprire il pavimento di pentole per evitare di allagare tutto, cominciò a formarsi intorno a loro una musica acquatica dal ritmo e intensità sempre variabile. Era come essere circondati da un concerto di cascate. L’uomo lo disse al vecchio, felice di aver trovato un paragone così arguto, e gli disse che avrebbe voluto tanto scrivere una scena del genere, far sentire al lettore l’intimità e la gioia di quel momento. Il vecchio gli suggerì di provarci subito e l’uomo, senza farselo dire due volte, prese uno dei suoi pregiati quaderni, la sua stilografica mai usata, e cominciò a pensare a cosa scrivere, e come, da dove cominciare. Passò il tempo, la sinfonia volteggiava nell’aria, ma l’uomo non scriveva. Per giustificarsi disse al vecchio che non era il momento giusto per scrivere, che avrebbe recuperato con l’ispirazione, ma questi non la bevve.
“Da quanto tempo”, gli chiese, “ti culli nella certezza che l’ispirazione arriverà?”
L’uomo, sbalordito, gli disse che si era ritirato in quella cascina da almeno dieci anni per scrivere le sue grandi opere e che, in dieci anni, non era stato in grado di scrivere neanche una lettera a sua madre. Quando disse queste parole fu quasi sull’orlo delle lacrime, ma il vecchio lo interruppe prima che potesse disperarsi del tutto:
“Mi hai ospitato senza chiedere nulla in cambio, mi hai accolto e salvato la vita; mi sdebiterò esaudendo il tuo desiderio.”
Si portò alle sue spalle, ad una velocità che l’uomo non avrebbe mai sospettato, e gli mise le mani sugli occhi.
“Ehi!” cercò di protestare l’uomo, ma il vecchio gli tenne ben stretta la testa; aveva le unghie affilate, notò l’uomo, e gli affondavano nella carne. Ma, nonostante questo, non riusciva ad averne paura.
“Scrivi”, disse il vecchio. “Non pensare, scrivi e basta. Hai la penna in mano, il quaderno davanti a te. Scrivi.”
“Ma… ma non ci vedo!”
“Non ti serve vedere. Scrivi.”
L’uomo sospirò, lasciandosi cullare dalla morsa del vecchio.
“Non so cosa scrivere.”
“Muovi la mano sul foglio. Comincia. Al resto penserò io.”
La voce del vecchio era cambiata; era più giovane, più bassa, roca. Gli stringeva la testa fra le mani con una forza inusitata e le sue mani, all’uomo, sembrarono improvvisamente enormi. Tuttavia continuava a non averne paura. C’era qualcosa in lui che lo faceva sentire al sicuro, molto più di quanto si fosse mai sentito in tutta la sua vita. Pensò che, forse, era la bufera a dover temere lui, e non il contrario. Immaginò la bufera bussare alla sua porta per dirgli: “Ti prego, mettimi al riparo, c’è un vecchio nel bosco!”; e rise. Il vecchio lo scosse.
“Scrivi!”, ordinò.
Incapace di spiegargli che non aveva neanche una parola sulla punta delle dita, l’uomo mosse a caso la penna sul foglio. Con sua grande sorpresa, la mano cominciò a muoversi da sola, come pervasa da una forza invisibile. L’uomo continuò a scrivere con foga, incapace di capire quali storie stesse scrivendo, e di cosa stesse parlando. La sua mano lo sapeva, lui no.
“D’ora in poi”, disse il vecchio, “non avrai più problemi. Dovrai solo chiudere gli occhi e muovere la mano come stai facendo ora. Niente di più, niente di meno. Le idee arriveranno e si daranno una forma da sole. Tu non dovrai fare niente, se non farti leggere, e diventerai lo scrittore famoso che hai sempre sognato. E tutto questo durerà per tutta la vita se rispetterai una sola, semplice regola: non dovrai mai leggere niente di quello che scrivi. Ti concedo al massimo la lettura del titolo. Hai capito?”
L’uomo annuì, la testa inglobata in quelle mani ormai giganti.
“Bravo. Continua.”
Passarono così tutta la notte: il vecchio a coprirgli gli occhi e l’uomo a scrivere. All’inizio era incerto, quasi scettico, ma andando avanti fu talmente preso da quei movimenti indipendenti dalla sua volontà che entrò in una sorta di trance. Era affascinato dal suo corpo, che per la prima volta sentiva come una creatura a sé. Gli sembrava quasi che sospirasse di sollievo per essersi liberato da quella testa troppo ingombrante, troppo pensante, disordinata e svogliata. Il talento era libero di fluire e si stava pian piano riprendendo. Finalmente, sembrava dire il suo talento, quel grosso cervellone bacato si è deciso a darmi spazio.
La mattina dopo l’uomo si svegliò su una pila di fogli battuti a macchina che sfogliò velocemente, senza soffermarsi su una sola parola; si godette solo la sensazione di sfogliare un suo lavoro, e il bel titolo scritto a lettere cubitali:
LA TEMPESTA BUSSA ALLA MIA PORTA
La cascina era piena di pentole e bacinelle ricolme d’acqua, gran parte dei suoi libri mai letti e dei quaderni mai scritti erano fradici e ridotti ad una poltiglia biancastra; la sua macchina da scrivere, inutilizzata per anni e colma di ragnatele, era come nuova e splendente. Il suo manoscritto era in perfette condizioni, pronto per essere letto. L’uomo si guardò in giro. Il vecchio era lì, riverso sul divano, un gran sorriso stampato sul volto vizzo e gli occhi ancora aperti. Nelle piccole mani rugose stringeva il pregiato tagliacarte che l’uomo si era procurato dieci anni prima, immaginando il giorno in cui lo avrebbe usato per aprire le lettere degli ammiratori: il vecchio lo aveva usato per tagliarsi la gola.
*
Passarono gli anni e l’uomo, da bizzarro sognatore nullafacente che viveva nei boschi, era diventato lo scrittore più amato e celebrato del pianeta. Non c’era giorno che non pensasse al vecchio sconosciuto: quel lontano giorno in cui lo aveva trovato morto si era reso conto di non sapere come si chiamasse. Non aveva documenti e la pesante borsa con cui era arrivato la sera prima era stranamente, completamente vuota. L’uomo lo aveva seppellito con il suo tagliacarte vicino alla cascina promettendogli che, un giorno, avrebbe trovato la sua famiglia e gli avrebbe dato una degna sepoltura. Ma, per quanto avesse cercato, non aveva mai trovato nessuno in cerca di un vecchio scomparso. Arrivò a sfruttare la propria subitanea fama per assoldare un agente segreto in grado di scoprire l’identità dell’uomo, ma fu tutto inutile.
Aveva una vita meravigliosa, ma il debito che sentiva di avere nei confronti dell’uomo non gli permetteva di viverla appieno. Pensava a quel povero corpo dilaniato dai vermi nel fondo della terra, le mani scheletriche che ancora stringevano un fermacarte ossidato… si sedette e scrisse per due giorni, bendato, un romanzo meraviglioso sul legame fra un allievo e il suo maestro che andava oltre i confini del tempo e dello spazio. Si svolgeva tutto sulla tomba del suddetto maestro. Ma, alla fine, si scopriva che in realtà la tomba era dell’allievo che aveva insegnato al suo mentore più cose sulla vita e la morte di quanti questi ne avesse imparate in una vita intera. Lo consegnò all’editore, che lo pubblicò in capo ad una settimana e gli fece vincere il terzo Pulitzer di fila due mesi dopo.
La sera della premiazione si presentò in pigiama su consiglio del suo agente, che lo spacciò per un atto da innovatore assoluto rimasto umile nelle piccole cose; fu il più fotografato di tutti. Mentre sciorinava qualche citazione imparata a memoria nella cascina conobbe una sua fan, una top model senegalese dai capelli blu, che insisteva nel voler parlare della trama di tutti i suoi romanzi e del modo delizioso in cui sembrava che tutto fosse strettamente collegato, anche se in mondi così diversi fra loro e fra personaggi così unici e particolari. Poi, indicando i suoi ricci, turchesi, gli disse che li aveva fatti in nome della protagonista del suo romanzo preferito. Naturalmente l’uomo non aveva idea di cosa stesse parlando, visto che non si era mai letto. Aveva dato un’occhiata a qualche recensione su di sé ma, in generale, preferiva evitare qualunque cosa riguardasse i suoi romanzi per paura di leggere indirettamente qualche frase scritta da sé stesso e perdere per sempre i suoi poteri. Evitava accuratamente qualunque tipo di contatto umano che potesse portarlo a leggere qualcosa di sé, non si collegava mai su internet e aveva detto al suo agente di soffrire di una forma di fobia verso le disquisizioni sui suoi scritti, per evitare incidenti. La modella in questione sembrava non saperlo e fu costretto a dirglielo di persona, stropicciandosi malamente l’orlo delle maniche del pigiama. Doveva avere un’aria così pietosa che alla sua interlocutrice vennero le lacrime agli occhi e gli chiese di perdonarla.
“Com’è coraggioso, lei”, disse, “a partecipare a questi eventi nonostante la sua paura!”
“Lo faccio per i miei fan, sa…” rispose, scrollando le spalle. Si sentì improvvisamente ridicolo in pigiama e pantofole fra quella gente così elegante, di fronte a quella donna così sensibile e alta. Solo guardando i suoi occhioni da cerbiatta inumidirsi, infatti, si rese conto di quanto fosse davvero, davvero alta. Era così alta che il suo pianto, per lui, sarebbe stato come pioggia. Lì, alla cerimonia dei Pulitzer. Una pioggia al chiuso. In pigiama. L’idea di farsi piangere in testa da una gigantessa africana lo mandò nel panico a tal punto da raccontarle l’unica cosa che avesse mai scritto di suo pugno: una barzelletta sui cani che aveva inventato ai tempi del liceo. La donna, stralunata in un primo momento, scoppiò a ridere. L’uomo si sentì improvvisamente sollevato e grato per quel lampo di genio adolescenziale e rise a sua volta, godendosi la consapevolezza che fosse stata una sua idea a far ridere quella donna. Al suo agente la battuta piacque così tanto da farla diventare un tormentone e l’uomo si sentì libero di ripeterla durante un’intervista il mese successivo, scatenando l’ilarità di presentatore e pubblico. Non si era mai sentito così fiero e soddisfatto in vita sua.
*
Sì, quella battuta era sua. Sua! E la gente la ripeteva per strada, e ne rideva come se ogni volta fosse la prima. Nessuno si stancava mai di sentirla e ripeterla. L’uomo si divertiva a vedere come la gente ridesse per una sua battuta, e di come lo ritenesse spiritoso. Era il frutto di prove continue sui banchi di scuola perché il gioco di parole fosse scorrevole e non incespicasse sulla lingua mentre veniva pronunciato. Era qualcosa di molto piccolo rispetto ai grandi romanzi che avevano appassionato tutto il mondo, vinto fior fior di premi letterari e ridotto in lacrime artisti e grandi intellettuali in preda alla commozione – anzi, si disse, era niente. Lui era ben altro e il mondo lo sapeva. Ma tu, si disse malignamente, lo sai chi sei?
Non è importante, si rispose. Finché lo sanno gli altri, va tutto bene. Finché gli altri mi leggono, va tutto bene.
Mentiva, lo sapeva benissimo. Mentiva a se stesso. Era un bugiardo, lurido approfittatore di poteri non suoi, incapace anche solo di dare degna sepoltura ad un vecchio suicida; era una marionetta nelle mani del suo agente, un misero uomo vuoto e senza scopo nella vita, che campava solo per vivere una vita che non aveva mai meritato. Si mise alla scrivania, si bendò, e scrisse un lungo e intricato romanzo d’introspezione su un omuncolo senza talenti né amici che mentiva costantemente a se stesso, in ogni fase della sua vita; mentiva così bene, ed era così scaltro, che arrivò a mentirsi anche in punto di morte e finì con l’assistere terrorizzato alla propria sepoltura, anima viva dentro un corpo in decomposizione, perché convinto da se stesso di essere ancora vivo. Fu pubblicato immediatamente, senza neanche passare per una revisione, e vinse il Nobel per la letteratura.
Andò alla cerimonia di premiazione con la modella troppo alta, che in onore del suo nuovo romanzo si era tinta i capelli di rosa (e la contemplò allibito chiedendosi perché tutti i suoi personaggi avessero capelli così strani); pianse ritirando il premio, vergognandosi come l’ultimo dei ladri, mentre il mondo ammirato lo applaudiva.
*
Era inverno, come l’ultimo giorno in cui i suoi sogni erano ancora una nebulosa indistinta, quando l’uomo arrivò alla cascina. Era quasi il tramonto, come quando il vecchio aveva bussato alla sua porta, e proprio come quella volta c’era aria di tempesta.
La cascina era stata completamente ristrutturata e si era rifiutato di venderla, anche se non ci era mai tornato. Era diventata un rifugio di montagna a tutti gli effetti, dotata di ogni comfort e pronta per accoglierlo in un eventuale ritiro spirituale. Da qualche parte, nelle terre là fuori, il suo amato vecchio aspettava ancora di essere seppellito, vegliato solo da un tagliacarte. L’uomo aveva uno zaino ricolmo di libri – tutti i suoi romanzi, dal primo all’ultimo. Aveva abbastanza soldi da poter vivere dignitosamente tutta la vita e non aveva motivo di continuare con quella finzione: avrebbe letto tutti i suoi libri e messo fine all’incantesimo. Ormai era deciso. Almeno, pensava, dopo avrebbe potuto parlare dei suoi libri con qualcuno e godersi un po’ la fama.
“Sei sicuro?” disse una voce alle sue spalle. Una voce gutturale, baritonale, roca, giovane e vecchia insieme, la voce di tutte le voci del mondo, riempì la stanza; toccò la spina dorsale dell’uomo come una corda dal suono troppo alto e stonato che vibrò forte, facendolo rabbrividire e squittire come un topo. Si voltò. Lì, sulla soglia, mentre le prime gocce di pioggia cominciavano a cadere leggiadre, c’era il vecchio con il sorriso tirato e la gola tagliata. A parte i vestiti sporchi di terra non era cambiato dall’ultima volta che l’uomo lo aveva visto: il sangue era ancora fresco, usciva a fiotti dalla gola aperta dell’uomo e gocciolava dal tagliacarte lucente.
Il vecchio avanzò e chiuse la porta, sporcando il parquet nuovo di sangue e lasciandone lunghe tracce sul pavimento con i suoi passi strascicati, come bava di lumache rossa e brillante. Si sedette sul divano, dove l’uomo lo aveva trovato morto quella mattina di… sbiancò, rendendosi conto che erano passati esattamente dieci anni.
“Esatto!”, disse il vecchio, leggendogli nel pensiero “dieci anni di fama, uno per ogni anno passato a sognare. Mi sembrava uno scambio equo. Sai,” continuò “non mi aspettavo che avresti continuato a ricordarti di me per tanto tempo. Credevo che arrivato almeno al primo milione in banca avresti cominciato a goderti la vita e a dimenticarti di me.”
“Non potevo…” mormorò l’uomo, terrorizzato e basito al tempo stesso “non avrei mai potuto… dimenticarti. Ti devo tutto.”
“Oh, certo che mi devi tutto” annuì il vecchio, convinto “ma ti facevo più egoista. Ammetto che in questo mi sono sbagliato.”
Rimasero in silenzio mentre il primo tuono ruggiva a valle, facendo tremare gli alberi.
“Chi sei?”, domandò l’uomo, balbettando, “Il diavolo?”
Il vecchio, dopo un attimo di smarrimento, si abbandonò ad una grassa risata. Gettò indietro la testa e la ferita sul suo collo si spalancò, spruzzando sangue ovunque, anche addosso all’uomo tremante.
“Mio caro ragazzo,” disse il vecchio scuotendo la testa “io sono te. O meglio, sono quello che avresti potuto essere se ti fossi messo a scrivere davvero.”
“Ma… ma io scrivo!” Si difese l’uomo “E scrivo grazie a te!”
“No. Tu scrivi perché hai sempre saputo farlo. Ma hai preferito inseguire i tuoi sogni nel loro territorio, invece di trascinarli nel tuo. I sogni non vanno inseguiti, vanno cacciati, come la gente normale va a pesca. Bisogna costruire una rete per catturare i sogni, e quella rete la costruisci solo lavorando. Io ti capisco,” sospirò “sei nato in un mondo che ti ha convinto che il risultato fosse migliore del lavoro fatto per ottenerlo. Ti sei lasciato abbindolare e hai abbandonato tutto quello che potevi essere. Ma quello che hai abbandonato non è morto: si è trasformato, è cresciuto dando vita a me. Ho vissuto con te per anni, cercando di riportarti sulla retta via, ma non c’è stato verso. Hai passato dieci anni di sonno e dieci anni di veglia e corsa sfrenata… ma credo che nessuna delle due fasi sia servita a qualcosa, dico bene?”
L’uomo deglutì. Aveva le lacrime agli occhi. Scosse la testa.
“No. Perché sei rimasto vuoto completamente. Perché la tua anima non aveva niente di cui alimentarsi. Sei un cadavere ambulante. Non vali niente, quando avresti potuto essere tutto.”
Rimasero a lungo in silenzio, stavolta, a sentire la tempesta infuriare fra gli alberi. Il vecchio si alzò, avvicinandosi al tavolo, e mise le mani sui libri – i suoi libri, i loro libri – lasciando le sue impronte insanguinate su tutte le copertine. Cominciò a sfogliarli, lasciando segni rossi sulle pagine.
“Sai qual è la cosa peggiore? Che sei diventato talmente vuoto e lontano da ciò che eri e avresti potuto essere… che ora, leggendo questi libri, non capiresti niente. Hai cambiato la storia dell’uomo, le sorti dell’umanità, con questi romanzi. Hai davvero cambiato il modo di pensare di intere generazioni. E si sono evoluti tutti, tranne te. Te, e la tua stupida sete di gloria. La tua stupida, insaziabile fame di soldi e potere.” Il vecchio si lasciò andare di nuovo ad una risata sommessa, amara “Come se gli scrittori potessero avere davvero soldi e potere!”
L’uomo rimase a lungo seduto, piangendo in silenzio, mentre guardava i suoi libri coperti di sangue. Era incapace di guardare il vecchio negli occhi. Se stesso. Era incapace di guardarsi negli occhi.
“C’è ancora una soluzione, però.” Disse il vecchio, tendendo la mano verso di lui, asciugandogli una lacrima. “Puoi ancora farcela. Puoi leggerti… cercare di capire chi sei. E ricominciare daccapo. Sopportare le critiche, le modifiche, i rimproveri. Affrontare con un sorriso sulle labbra le figuracce e la vergogna per un concetto espresso male, o un refuso sfuggito ai correttori di bozze, o la consapevolezza di aver trovato troppo tardi il finale perfetto. Puoi rimetterti a studiare e impegnarti davvero, stavolta. Per entrambi. Diventare ciò che eri destinato ad essere. Impegnarti davvero, fino in fondo, da oggi in poi. Lavorare e goderti i frutti del tuo lavoro. D’altronde, non eri felice quando le persone ridevano della tua battuta? Immagina una simile soddisfazione per tutti i tuoi romanzi pubblicati, per tutta la vita. Non sarebbe bello?”
L’uomo si alzò, senza ancora guardarsi negli occhi. Avrebbe potuto farcela, certo. Lavorare di giorno in giorno e far rifiorire la sua anima da quell’inferno mummificato in cui l’aveva lasciata e farla lavorare di pari passo col talento. Usare tutta la sua mente per scrivere nuovi romanzi, nuove storie. Fallire e rialzarsi. Lavorare ancora. Scrivere ancora. Essere irreprensibile. Serio. Allontanarsi per sempre dal suo agente e da quegli intellettualoidi senza cervello che, come lui, passavano le serate a recitare battute imparate a memoria. Essere vero. Guadagnarsi una dignità di scrittore. Lavorare per tutta la vita. Impegnarsi…
“Non farti spaventare dal lavoro,” disse il vecchio, “puoi farcela! Sei destinato a questo. Non puoi pretendere di avere tutto senza dare niente in cambio.”
Il vecchio urlò anche altro, ma l’uomo non lo sentì. Per lui era troppo tardi, e non ce l’avrebbe fatta. Non avrebbe mai potuto farcela. Aveva sbagliato tutto, sì: e non c’era modo di recuperare. Non era mai stato organizzato, preciso, non aveva mai tenuto fede ai suoi impegni. Era sempre stato un buono a nulla e solo quell’assurdo potere era stato in grado di dargli qualcosa. Aveva la possibilità di dimostrarsi quanto valeva ma all’improvviso, davvero, non gli importava. E non gli importava neanche del resto del mondo.
L’uomo cominciò a correre, incurante delle urla ormai assordanti del vecchio. Uscì dalla cascina: la bufera infuriava da ogni parte e non poteva far altro che gettarcisi dentro, farsi prendere dalla furia della natura e morire, lasciare che il guscio vuoto del suo corpo si spaccasse e ponesse fine a quell’umiliazione cocente. Si voltò un’ultima volta: la cascina era tornata allo stato di abbandono di un tempo, come quando ci viveva. Il vecchio era sulla soglia in uno stato avanzato di decomposizione, coi vermi che cadevano a fiotti dai bulbi oculari, dal collo aperto e dalla bocca spalancata in un grido muto. Tese le mani verso di lui, mani scheletriche che stringevano un tagliacarte completamente ossidato e incrostato di sangue nero.
L’uomo corse via. Corse, corse e corse ancora, stavolta senza voltarsi indietro. Tutte le cose meravigliose che poteva essere e non era mai diventato lo inseguivano, furiose per la sua inadempienza, affamate di carne e vendetta.
Corsero insieme – l’uomo e il suo inconscio, l’uomo e il suo talento, l’uomo e la sua sfortuna, l’uomo e i suoi sogni, l’uomo e la sua vanità – fin nel profondo del bosco. Corsero insieme, inseguendosi l’un l’altro in eterno.
Quando l’alba sorse, fu come se nulla fosse mai successo.
La cascina crollò su se stessa.
Daniela Montella