di: Renzo Zambello
Dario era un ragazzo di 24 anni, di bell’aspetto, la faccia, forse, ancora un po’ troppo da bambino veniva evidenziata da un fisico di oltre un metro e ottanta e due spalle coltivate in palestra. Mentre parlava gli occhi grandi gli si chiudevano spesso e mi comunicavano qualcosa che non capivo. Si stava annoiando o avrebbe voluto non essere li o semplicemente, chiudeva gli occhi per sparire, come fanno i bambini?
Al quinto anno di Ingegneria, già con il titolo della tesi gli mancavano due esami a finire ma, mi disse: “Non ce la faccio più. Non riesco più a studiare”.
“E’ stanco? Ha degli esami importanti, difficili ancora da dare?” Chiesi io
“No, non particolarmente” rispose abbassando la testa e mi sembrò di capire che volesse proprio andarsene, “No, è che proprio non ce la faccio più.”
“Ha fatto molta fatica, in questi anni?” Dissi a bassa voce, “Si sente stanco?”
“No, non molta. Non ho fatto molta fatica”.
Non capivo o meglio capivo che l’Università, lo studio non centrava niente. Feci silenzio.
Lui totalmente con la testa bassa fino a mostrarmi la nuca mugugnava parole incomprensibili ma mi trasmetteva angoscia e la percezione di una situazione “pericolosa”.
“Dario, Dario!” Dissi volutamente con voce impostata e un po’ alta, “ Mi vuole dire che cosa le sta succedendo, perché è qui e come la posso aiutare?” Volevo farlo uscire dalla sua improvvisa regressione. Mi rivolgevo al Dario adulto che certamente c’era e che non potevo permettermi di perderlo subito.
Lui alzò la testa, mi guardò aprendo gli occhi e tenendo uno sguardo fisso come a trasmettermi una richiesta di aiuto frammista alla paura disse: “ Non voglio il naso!”
“Non le piace il suo naso?” Ribattei e intanto lo osservavo per cercare di individuare dov’era per lui il problema. A me sembrava un naso normalissimo, piccolo e un po’ alla francese, armonico nella sua faccia da bambino.
“No! Non ha capito. Non voglio il naso”.
Seguì un silenzio che rispettai a lungo. Era evidente che non potevo aggiungere niente che non fosse banale e offensivo alla sua intelligenza.
“Vede” Disse guardandomi spaventato, quasi in preda ad una paura buia e terrorizzante, “Io non posso più sopportare di averlo in mezzo alla mia faccia. Quando sono con gli altri, li guardo e poi, se stringo gli occhi e vedo la punta del mio naso. Io non ce la faccio. Mi da fastidio, non lo vorrei e non riesco a pensare ad altro”.
Tentai io di parlare d’altro e lui mi raccontò che era figlio unico, che aveva avuto una ragazza fino a otto mesi prima, ma poi, il pensiero del naso lo isolava sempre di più ed ormai da alcuni mesi non usciva quasi da casa e non frequentava né amici e tanto meno l’Università. I genitori, liberi professionisti erano fuori tutto il giorno ma si erano accorti che Dario “aveva qualcosa di strano”. Così gli disse la madre un po’ di tempo prima: “Dario tu hai qualcosa di starno, vai a farti aiutare.”
Dario aveva risposto in preda ad una angoscia che aveva spaventato i genitori, urlando: “No, non ho niente, non ho niente. Smettila, smettila!”
Silenzio.
“Cosa c’è che non va Dario?” Sussurrai.
“ Il mio naso, non voglio il naso.”
Era di nuovo regredito.
Fine prima parte.
Condividi :