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“L’uomo che veniva da Messina” di Silvana La Spina: la pittura come strumento per vivere in eterno

Creato il 29 gennaio 2016 da Alessiamocci

“Il prete ha condonato tutti i miei peccati. Gli occhi, le orecchie, il naso, la bocca, le mani, persino i piedi sono stati benedetti…Entrerò nell’aldilà puro come il giorno che sono nato. Adesso sono libero, leggero… La mia barca è pronta per l’ultimo viaggio.”

È sorprendente il ritratto del pittore siciliano Antonello da Messina (1430- 1479) che Silvana La Spina delinea nel suo romanzo “L’uomo che veniva da Messina” (Giunti Editore, 2015). Nata a Padova da madre veneta e padre siciliano, l’autrice incarna bene lo spirito di queste due città, Messina e Venezia, in cui il pittore ha in prevalenza interagito; là dove è nato e ha concluso i suoi giorni.

Di Antonello da Messina si sa poco, tanto che alcune sue opere hanno avuto all’inizio altre attribuzioni, ma è l’unico fra i pittori siciliani ad avere raggiunto la fama universale. Il solo, in pratica, ad essere entrato nel novero dei “grandi” dell’epoca; figlio di una Sicilia che purtroppo non ha incoraggiato né protetto il suo genio. Egli ha raggiunto la fama per merito di quei viaggi che lo hanno tenuto lontano dalla famiglia, e da Messina.

Un continuo peregrinare al fine di visitare le più grandi città italiane – e non solo -, nella speranza di riuscire a carpire i segreti dei maestri dell’epoca rinascimentale. Distante da una moglie sposata per convenienza e da un padre padrone verso il quale non ha mai sentito alcun trasporto, Antonello è cresciuto nel ricordo di quel nonno navigatore che invece gli ha trasmesso la sua sete di conoscenza e l’amore per le donne.

Spirito indomito e uomo dall’ambizione sfrenata, il nostro protagonista ha desiderato più di ogni altra cosa dipingere “a olio” alla maniera dei fiamminghi.

Nel 1479 Antonello torna a Messina per morire in pace, dopo un lungo vagabondare in una Venezia colpita dalla peste; una città che gli ha dato fama e l’importante amicizia con Giovanni Bellini, ma anche il grande dolore per la morte dell’amata Griet. Quest’ultima è la figlia bastarda di Van Eyck, che Antonello considerava il più grande pittore al mondo, attraverso il quale è venuto a conoscenza dei segreti della pittura a olio e dei ritratti coi personaggi presi di scorcio, espedienti tipici di questi pittori nordici.

Al cospetto del suo maestro Colantonio – che poi, fra il delirio e la veglia, non si capisce se sia interlocutore reale o creato dalla mente di un moribondo -, Antonello detto “il Messinese” inizia a raccontare della sua vita, fin da quando era bambino e attendeva l’arrivo del nonno al porto di Messina.

In seguito, dei viaggi a Napoli, Roma, Mantova e Arezzo, dove egli è entrato in contatto coi più grandi artisti dell’epoca, ma anche con realtà talvolta spiacevoli, se non pericolose: come quel Panormita, letterato, che per antipatia ha sempre cercato di infangare il suo nome.

Dall’incontro con ogni artista – Pisanello, Leon Battista Alberti, Mantegna, Piero della Francesca, solo per citarne alcuni – egli trova il modo di arricchire la sua pittura, la cui magnificenza fa da contraltare ad un uomo avido di esperienze e frequentatore di osterie e bordelli.

Fondamentale il viaggio a Bruges, dove il pittore conoscerà il segreto dei fiamminghi, alla cui pittura a olio anelava da tempo, e Griet, il grande amore della sua vita, sacrificato in nome di quella pittura che lo ha sempre “infiammato” sopra ogni cosa, così come il suo desiderio di rendersi immortale, proprio attraverso i suoi dipinti.

L’uomo che ritroviamo a Venezia, negli ultimi anni, al cospetto dei due fratelli Bellini, è ormai malato di tisi, che, con l’avvento della peste e la morte di Griet, decide di fare ritorno a Messina per terminare i suoi giorni.

Attraverso uno stile meticoloso nel ripercorrere sia lo scenario dell’epoca che il suo linguaggio, Silvana La Spina ha tracciato un ritratto nitido e malinconico di un pittore mai particolarmente amato in patria, forse proprio per quella sua voglia di innovazione e quella sua vita scellerata. Un artista in grado di mescolare la resa della luce, tipica della pittura fiamminga, alla monumentalità delle opere italiane.

“L’uomo che veniva da Messina” è senza dubbio un piccolo capolavoro, dove la fantasia dell’autrice è riuscita a donare una storia ad un pittore dal grande talento, che, con la sua vita grama, mai ne aveva avuta una.

Written by Cristina Biolcati


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