Un sole freddo cala giù verso il mare. C’è un surfista fra le onde che avanza disteso sulla tavola a pancia in giù. L’uomo col riporto passeggia sul lungomare, guarda il surfista, lo guarda con aria affranta, con due occhi umidi e flosci. Il vento gli scompiglia quei capelli grotteschi, un ciuffo si alza dritta sulla sommità della testa come se fosse una ridicola cresta biondastra, ma lui sembra non darsene pena. Indossa un cappotto più grande di tre taglie, sembra uno di quei capi recuperati in un cassone giallo per la raccolta degli indumenti usati. Si avvicina alla balaustra e punta i gomiti, si incurva in avanti, adesso guarda gli scogli ingiù. È uno degli ultimi giorni dell’anno, e l’uomo col riporto anche stamattina non ha trovato niente di meglio da fare se non lasciare che il vento gli porti a spasso i capelli. Gli uomini che si pettinano così hanno il complesso della calvizie, e se lui non ci tiene più a camuffare il cranio significa che ha smesso di combattere su molti fronti. È questo il cuore bruciante della sua autoaccusa. In giro c’è poca gente, una coppia che sospinge un passeggino, due vecchi che discutono sulle malefatte del governo. L’uomo col riporto sposta la sua attenzione dal surfista alla coppia col passeggino. Lui non ha figli, e ha da poco deciso che è una fortuna, che i figli sono una tale grana. Dà un’occhiata alla bambina, la bambina contraccambia incuriosita. Ha meno di un anno e lei non ci trova niente di strano nei suoi capelli.
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