Camminare, per andare dove? Ha importanza nella Metropoli? No. Nessuna.
Siamo in tanti, in troppi, tutti vicini ma la contiguità spaziale non ci rende un gruppo, non ci fa meno soli o più congregati, perché nulla ci accumuna se non incognite che ci sfuggono e non possiamo indovinare.
Le spalle sfiorano altre spalle, contatti accidentali, coscia a coscia, corpi coperti, sudore sotto strati di vestiti e umori celati dalle polveri sottili e dal deodorante, nonostante l’atmosfera da Gran Bazar a Tokyo tutto è sterilizzato e sottovuoto, asettico, anche le persone. Con un po’ di fortuna troveremo uno sguardo a illuminarci per un attimo e di quello ci scalderemo, ne fantasticheremo a lungo, per poi dimenticarcene a breve, per sempre, distratti da un altro sguardo forse più complice o con più mascara, magari seguendo la scia di un profumo, o il chiasso di un colore.
Ognuno va e non possiamo indovinare dove, sono troppe le possibilità, oltraggiosamente innumerevoli le variabili in gioco, e allora immaginiamo bivi e porte scorrevoli, treni e auto, camere d’albergo e ristoranti, e tutto è plausibile.
Dove vanno, a che pensano, a che ora hanno pranzato, dove dormiranno, perché ridono, magari sono felici, magari si sentiranno soli a volte, ma che si dicono, se mi urtano, perché fanno finta di niente, che cosa nascondono sotto i cappelli, ma soprattutto, cosa c’è in tutte quelle borse? Non lo sapremo mai.
C’è un momento in cui i nostri percorsi si uniscono, prevedibilmente, senza frenesia e senza traumi. Ci fermeremo, condivideremo lo spazio e staremo in silenzio gli uni accanto agli altri, fiato a fiato, piede a piede, borsa a borsa, vicini come non mai, rassicurati, unanimi.
E’ la magia dei semafori, che ci fanno fermare e stare tutti vicini, zitti, prima di attraversare la strada. Per un breve momento la contiguità spaziale ci accomuna, perché siamo certi di andare tutti dalla stessa parte e siamo vicini a costoro, ignoti, eterogenei, imprevedibili esseri umani che popolano le strade delle città.
E’ bello guardarsi attorno e osservare le facce di chi sta per attraversare, quei corpi, indovinarne il passo, il rumore dei tacchi, l’ampiezza della falcata, lo scatto per raggiungere l’altro lato della strada…
Siamo autorizzati a gettare quello sguardo, il meno clandestino degli sguardi della metropoli. Scatta il verde, e tutti vanno, già avvezzi, pronti a sparpagliarsi a raggiera, a file, a gruppetti, ad anse, a grappoli, oppure in solitaria, e c’è chi corre e chi cammina svelto, e perfino chi sbuca dal nulla.
Come lui. L’uomo dal cappotto di leopardo. Le mani in tasca, solo, non faccio in tempo a vederlo in viso, scatto una fotografia, l’incrocio delle scapole, il passo deciso e questo cappotto portato con una certa fierezza, un pugno in un occhio, un frutto acido al morso, una sorsata d’acqua torbida, una nota stonata suonata fuori tempo che diventa, quindi, miracolosamente assonante.
Da dove è sbucato? Prima non c’era, tra la folla ad attendere il verde, deve essere arrivato dopo, all’ultimo, o forse si è materializzato solo adesso, chi può dirlo? Passa, non si gira, non volta quella testa biondo-rosa, quelle spalle ben disegnate non apparterranno mai a un volto, né di uomo né di ragazzo, né di nulla che non sia un’immagine un poco sfocata, iridescente di luci e senza sorriso, il sorriso è dall’atra parte, quella facciata che non vedo, da questa parte ci sono solo le spalle.
Dove vai, uomo dal cappotto di leopardo, un poco distaccato da gli altri e solo, solo senza una borsa, senza un cappello, senza un destino, senza un volto cui associare un nome?Ho l’impressione che tu non vada da nessuna parte.
Tu passi, illumini e sparisci, stretto nel tuo cappotto di leopardo dalle tasche sottili, gli occhi velati di noia e la bocca asciutta di parole che hai taciuto sotto i tuoi capelli rosa come un piumino di cipria.
Tokyo, 7 Gennaio 2010.
Magazine Italiani nel Mondo
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