Ai tempi del fascismo non sapevo di vivere ai tempi del fascismo, scrive Hans Magnus Enzensberger. Ma noi oggi non possiamo dirci innocenti, nulla avviene davvero a nostra insaputa. Perché tanti usciti da quelle temperie hanno compiuto una feroce autocritica della loro incredulità, di non aver compreso e accettato che i loro simili, i loro connazionali, si fossero trasformati in barbari, gli intellettuali in traditori, i rappresentanti in rinnegati.
Perché tanti oggi e per venti anni hanno denunciato la complicità, l’assuefazione, l’adeguamento e il riconoscimento in quella manomissione della democrazia che si è consumata anche con la manomissione della nostra lingua. Per venti anni come è avvenuto nel passato una macchina ideologica, pedagogica, retorica e linguistica ha agito per consolidare un regime che non è certo finito con l’uscita di scena non ancora completa del suo tirannello. In questo processo i regimi si assomigliano, sia il Terzo Reich che lo stato di Bananas, sia l’egemonia mediatica che quella tecnocratica, con poche differenze. L’addestramento sportivo e militare è preferito a quello intellettuale, ritenuto disprezzabile anche oggi se istruzione, ricerca e università sono umiliate e neglette. La filosofia e il pensiero osteggiati rispetto alla desiderabile organizzazione. Alla persuasione e al consenso ideale si preferisce il cieco fanatismo o la fidelizzazione, familistica o aziendale. E come da tradizione nel susseguirsi di dispotismi, tirannidi più o meno beceri, più o meno sobri, più o meno volgari è desiderabile l’ubbidienza, tanto che si saccheggiano lessici e gerghi, da quello divino, nel caso di provvidenziali salvatori, o in quello militare, nel caso di improvvisati condottieri, o in quello sportivamente imprenditoriale, nel caso di prestati alla politica.
Come nella Germania hitleriana Goebbels fu abile nell’immaginare un idioma poverissimo, veicolato da una macchina propagandistica formidabile, in grado di miscelare elementi aulici con passaggi triviali, così che l’ascoltatore, perennemente straniato, perdeva la sua facoltà di giudizio, così si è lavorato nel cantiere politico e propagandistico di questi anni, per ridurre lo spazio del pensiero e della coscienza a favore di quello del consumo per renderci seguaci entusiasti e inconsapevoli seguaci del dio mercato. Così si spiega l’abuso, la maledizione del superlativo e del magniloquente: ogni gesto compiuto dei governi è storico, unico, epocale, oggi è perfino supremamente “impopolare”, per non dire di “impressionante”.
E dire che si erano fatti passare per sobri, austeri, composti: macchè allo scendere in campo si sostituisce il salire in politica, salutato come un’ascesi auspicata o una desiderabile elevazione da qualche irriducibile scriteriato fan, mentre rappresenta la nuova mostruosa irruzione della provvidenza nel teatro della politica, dell’intervento sovrannaturale, peraltro del solito dio, quello del mercato, del profitto, della finanza che chiama al suo soglio il designato, l’eletto, il nominato. I loro slogan sono le solite rèclame della paccottiglia pubblicitaria dell’aziendalismo: competenza, utili, competitività, concorrenza. E per questo ci mettono la faccia, fanno sistema, fanno squadra, grazie alle tre I, Impresa, Inglese, Internet, cui vorrebbero aggiungere Inferno.
Qualche differenza c’è, consiste nella esibizione ostentata dell’avversione che ci riservano, del loro istinto punitivo, dell’indole a guardarci da dove sono saliti con il disprezzo mefitico che meritiamo che aver troppo avuto, troppo preteso, troppo goduto. Le tasche degli italiani, prima arcadia domestica, oasi intoccabile e riservata, diventa il luogo del castigo correttivo, il terreno di scorrerie doverosamente pedagogiche. L’odio che il partito dell’amore riservava ai comunisti, prodigo di doni superflui e effimeri per gli elettori mutati in teleutenti, ora investe tutto e tutti, lavoro e lavoratori, salute e malati, fonti di dissipazione, studenti e scuola, origini di ribellismo, sicurezze e diritti, matrici di aberranti abitudini alla disubbidienza e alla libertà.
Se davvero c’è una anomalia italiana consiste nell’indole della cosiddetta gente comune a non diffidare abbastanza di chi si presenta come “uomo della provvidenza” che sia grottesco, ridicolo, anonimo o scialbo. A non combattere contro quella erosione che passa anche per la lingua, la manomette, la consuma come fosse un residuo pericoloso di tempi diversi in cui la letteratura, l’esercizio delle professioni liberali, il gusto del vivere erano ancora possibili. E quindi la possibilità di un rifiuto a credere che siamo soggetti a subire un destino di sfruttamento e sopraffazione.
C’è un grande libro sulla lingua, meno epico della Lingua salvata di Canetti, più confinato nella dimensione della tragedia quotidiana, è “LTI. La lingua del Terzo Reich”, del filologo Victor Klemperer, che parla della distruzione inesorabile della parola e della comunicazione e quindi della civiltà e dell’umanità, attraverso la predicazione di ostilità e di morte.
Non pensiamo che gli uni, ridicoli, gli altri, incolori, gli uni, esorbitanti, gli altri, autistici non pratichino la stessa violenza, non siano ispirati dallo stesso impulso di sopraffazione e cancellazione di diritti, libertà, bellezza, conoscenza.
Gli uni scendono, gli altri salgono, ma le scale sono le nostre, possono portarci su, più in alto, dove non di arrivi il loro berciare, dove c’è posto per il ragionare insieme, per la poesia, per parole d’amore, di libertà, di umanità.