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L'uomo di confine e il costruttore di ponti

Creato il 04 ottobre 2010 da Giovannipaoloferrari
L'uomo di confine e il costruttore di ponti
I Balcani, non solo la Jugoslavia, sono sempre stati considerati una zona delicata per gli equilibri internazionali: una "Polveriera" come, genialmente, li ha denominati, nel film omonimo, il regista Paskalijevic, che nel '98 con lucidità profetica ha descritto non solo la situazione belgradese, ma quella di tutta la Serbia e del resto della ex - Jugoslavia, in un film, narrando una notte nella città di Belgrado: per commentare questa pellicola non ho altre parole e altri aggettivi se non quello di "bomba": una vera e propria bomba, folgorante, luminosa e sconvolgente. Il lungometraggio non lascia un attimo di tregua, sembra rincorrere lo stesso tempo e il cinefilo resta impressionato sulla poltroncina di velluto del piccolo cinema, unico in una grande città a trasmettere questo genere di film; il cuore salta in gola e la sequela spasmodica di eventi, personaggi ed episodi lasciano la bocca secca, il cervello in panne nel finale non riesce a credere alle sue stesse percezioni visive, mentre un giovane bosniaco, capro espiatorio di tutti gli odi etnici perpetrati nei secoli in questa terra infestata da rancori ed ambiguità, viene sacrificato al dio "Odio".
Lapidato, appeso ad una rete di filo spinato, mentre esplode l'intolleranza per le strade di Belgrado, come un nuovo Cristo sulla croce...
In questi luoghi dove i confini sono labili e precari, esiste un collegamento, una striscia di terra sospesa in aria, che riesce ad unire ciò che l'uomo separa e divide violentemente.
Questo è il "ponte"...
Il ponte rappresenta molto nelle culture delle varie popolazioni balcaniche ed uno scrittore, premio Nobel per la letteratura nel 1961, Ivo Andrìc, ha saputo più di qualsiasi altro raccontare attraverso il romanzo storico la storia e le vicende della sua terra, così amara e così cara...
Molti hanno dato valenza profetica alla narrativa di Andrìc, accreditandolo del merito di aver visto nel futuro della Jugoslavia la catastrofe odierna.
Sui ponti e sulla funzione che hanno lo scrittore serbo - bosniaco dedicherà molte pagine ed un racconto in particolare intitolato, per l'appunto, "I ponti" e contenuto nella raccolta "Racconti di Bosnia". Ma è interessante portare all'attenzione dei nostri lettori un'antica leggenda che Andrìc riporta in uno dei suoi scritti e che appartiene alla favolistica serbo - bosniaca.
"Dopo aver creato il Mondo ed aver sistemato le cose, Dio si guardò intorno e vide che aveva compiuto un gran lavoro degno di uno come Lui, ma guardando meglio in un piccolo fazzoletto di terra arido, incastonato tra monti aspri e impervie discese, notò che gli uomini per i quali aveva creato tutto sulla Terra, erano ostacolati da grossi corsi d'acqua, che loro chiamavano fiumi. Non potevano toccarsi ed avere contatti e la gente era costretta a rimanere sulla propria sponda guardando e sognando di arrivare a toccare l'altra e di conoscere chi l'abitava.
Dio vide che il sentimento di spingersi in là della propria riva era grandissimo ed era un'importante esigenza comunicare e scambiare con gli uomini dell'altra riva. Perciò non vide il perché di non unificare le due sponde: fu così che mandò sulla Terra gli Angeli, che con le proprie ali unirono le due rive e permisero il passaggio dall'una all'altra sponda agli uomini".
La metafora dell'angelo che scende in terra e apre le sue ali assicurando una parabola, solida per i piedi umani, è assolutamente incredibile! Un "tòpos" letterario, si direbbe in termini tecnici, per intenderci. Ma non solo ha valenze stilistiche ed artistiche questo quadro rielaborato da Andrìc da un'antica leggenda: possiede, infatti, in sé secoli e secoli di convivenza tra diversi popoli ed etnie. Il ponte è un segno di pace e di fratellanza, ma è stato adoperato, spesso e volentieri, soprattutto come un mezzo di transito di truppe armate di eserciti invasori, come collegamenti importanti, perché strategici nel gioco della guerra...
Il simbolo del ponte viene immortalato nel capolavoro di Ivo Andrìc: "Il ponte sulla Drijna" dove si narra la vita di questo ponte di pietra costruito a fine 1500 per volontà di Mehemed Pascià, alto funzionario dell'impero turco - ottomano, nonché genero dell'imperatore, condottiero e statista, trapiantato in Turchia all'età di otto anni come tributo di sangue delle province di Bosnia ed Erzegovina. Attraverso i secoli il ponte vede di tutto: affronta qualsiasi difficoltà, resta l'unico punto fisso per gli abitanti di Visegrad, tartassati dai fatti storici, che negli anni li hanno visti sempre perdenti e sottomessi. Dopo l'ennesima sventura, quando nel 1878 l'esercito austro - ungarico occupò la Bosnia - Erzegovina, allora anche le più piccole speranze che i vecchi conservavano nell'invincibilità del ponte sulla Drijna vennero a cadere: l'ennesimo esercito invasore, questa volta europeo e "civile", cattolico, aveva minato i pilastri che sostenevano le poderose arcate e aveva fatto saltare in aria l'arcata centrale dove risiedeva imponente la stupenda "bella porta in pietra"...
Si può comprendere la disperazione dei vecchi, che non hanno più nulla in cui credere, ma soprattutto non hanno più niente da trasmettere ai propri nipoti: tutte le leggende sorte sul conto del ponte, come avvenne la sua costruzione, quanto tempo vi impiegarono.
Il romanzo sembra costruito appositamente con una cura e un minimalismo esasperanti, per portare giusto alla conclusione dell'inutilità dell'intera narrazione, poiché è fine a se stessa: non esiste più un ponte sulla Drijna, è stato distrutto, perché mai leggere una storia che narri la sua storia? E, a maggior ragione, perché scriverla?
"Un nuovo inchiostro emerge alla superficie del testo e lo occupa, mentre il vecchio inchiostro sbiadisce fino a svanire. In Andrìc, gli uomini e i ponti, e quel che funge da tramite, da connessione, decadono gradualmente e scompaiono del tutto quando diventano incompatibili con i processi storici e mentali, evaporano prima di essere materialmente distrutti".
Si consumano, così, le tenui speranze che gli anziani facevano risiedere nel ponte...
Il 9 novembre 1993, a Mostar, capitale dell'Erzegovina, viene fatto saltare quello che tutti chiamavano "il vecchio ponte" o ancor più intimamente "il Vecchio", dandogli quasi un'anima. Michele Colafato nel suo "Mostar" racconta:
"La distruzione del ponte vecchio ne esplicita la fine. La mutilazione segnala una irrevocabile rottura. "Prima c'era il ponte poi...", "Prima c'era la vita poi...", Prima c'era la città poi...". Il tempo è spezzato. Con il ponte la città ha perso il contatto con la sua storia e con la sua memoria".
Quanti ponti sono stati distrutti in questi ultimi dieci anni di guerra nei Balcani? Quante certezze sono state abbattute? Quante vite sono state sacrificate? E quanti vecchi hanno perso la speranza per i loro nipoti ancora incoscienti e incapaci di provare e sentire speranza, perché bambini? Quanti bambini hanno perso la loro infanzia e quanti non l'hanno mai vissuta?
E allora è chiara la profezia nascosta tra le righe dei romanzi e dei racconti ( "Lettera del 1920" ) di Ivo Andrìc: chiara appare la sorte predestinata delle disgraziate popolazioni costrette a vivere in queste terre e a dividersele, stando troppe strette: troppe identità l'una accanto all'altra e troppo poco spazio...
Un barlume di speranza nella tragedia dei popoli jugoslavi, però, secondo Andrìc, ci dovrà pur essere: è difficile per lui individuare questa fiammella fioca nelle tenebre e nel caos che avvolge il suo Paese, vede chiari odi sopiti risvegliarsi presto e diversità insabbiate emergere insolenti, ma scorge qualcosa, all'orizzonte è il "costruttore di ponti", il "pontifex", contrapposto all'uomo di confine che vive nell'odio oppure è costretto a vivere in esso; sprofondato fino alle ginocchia dall'ambiente circostante. Ancora Colafato sostiene in "Emozioni e confini":
"Per Ivo Andrìc l'uomo di confine è esposto alla separatezza e alla sofferenza della separazione: tra natura e cultura, tra nascita ed educazione, tra comunità e individualità, tra integrazione e dispersione, tra memoria e oblio, tra una sponda e la sponda opposta. Il bosniaco realizza e simboleggia l'uomo di confine, assommando nella sua identità e nel processo di identificazione divisioni culturali, politiche, religiose, esistenziali. Nel mondo di confine del bosniaco la contrapposizione è la regola, il dialogo l'eccezione. L'eccezione è il ponte".
"Nessuno può immaginare che cosa significhi nascere e vivere al confine fra due mondi, conoscerli e comprenderli ambedue e non poter far nulla per riavvicinarli, amarli entrambi e oscillare fra l'uno e l'altro per tutta la vita, avere due patrie e non averne nessuna, essere di casa dovunque e rimanere estraneo a tutti, in una parola, vivere crocefisso ed essere carnefice e vittima nello stesso tempo".
Il costruttore di ponti, invece, è l'artefice non del riscatto, ma della speranza:
"I pontefici nutrono desideri fecondi che sono accompagnati dalla volontà e dall'energia necessarie per tradurre in atto, ma non sono destinati a vivere senza il dolore".
Della discesa della speranza, per dire meglio, in una terra che non conosce il significato del termine "futuro": "Come possiamo costruire un futuro se il nostro passato è sangue e il nostro presente sono rovine e macerie?", mi disse un ragazzo serbo - bosniaco qualche tempo fa. La speranza, come l'idea di futuro, non appartengono a queste culture, per questo motivo il costruttore, l'artefice non può essere uno jugoslavo, poiché non appartiene al suo carattere esserlo, ma per forze di cose uno straniero, uno sconosciuto, un forestiero: neanche a farlo apposta l'architetto del "Ponte sulla Zepa", racconto di Andrìc che riassume per certi versi i contenuti de "Il ponte sulla Drijna", è italiano e conserva in sé uno strano modo di fare, che nessuno riesce a comprendere: egli come l'uomo della provvidenza, arriva da lontano, costruisce nel minor tempo possibile e nella maniera più solida ed elegante il ponte e riparte per una destinazione lontana, senza voltarsi ad ammirare il suo lavoro finito, che non rivedrà mai più...
Solo nel personaggio di "Alihodza", l'imano, sembra che Andrìc infonda speranza:
"Ma sa pure, continuò a pensare, se qui si distrugge, altrove si edifica".
Però anche in queste parole c'è una sorta di rassegnazione, di sconfitta, che si avverte nel tono con cui parla Alihodza, che probabilmente sente vicina la sua fine Con la sua fine si chiude anche il romanzo. Come a dire: con l'ultimo superstite della memoria storica scompare anche la storia.
Una figura santa, estranea: verrebbe da pensare che Andrìc vedesse nella figura del costruttore di ponti qualcosa simile al Salvatore, al Messia. Certo una tesi del genere per quanto affascinante ci sembra alquanto inverosimile ed inadatta, ma...

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