Non è facile, dopo un periodo forzato di scarse letture, riprendere con un libro così. E forse non è facile neppure perché siamo in un’epoca dove quella che – semplificando – possiamo chiamare la trama, ha preso un netto sopravvento su tutto il resto. Nessuno – per dire – si azzarda più a parlar male di un libro magari trascurato a livello formale – sul piano della lingua – ma ben ingegnerizzato nella scansione degli eventi. Eppure, superato lo choc, questo è un libro che ti riconcilia con la narrazione. Dentro c’è solo questo signore anziano, il signor Geiser, che lotta per rimettere insieme i cocci di qualcosa che all’inizio non capiamo – della sua memoria, della sua cultura, del senso per cui stiamo sulla terra – in un contesto poco chiaro: c’è stata un’alluvione, una frana, ma quanto gravi si stenta a dedurlo. E poi ci sono tanti ritagli enciclopedici, sparsi così nel testo, proprio come foglietti ritagliati, pagine di libro stampate o ricopiate a mano su carta a quadretti. Parlano della scomparsa dei dinosauri, di come si è trasformato soprattutto il Canton Ticino nelle ere geologiche, di tuoni e lampi. Riportano orari dei treni e passi biblici. E tutto il lavoro di attribuire un significato, un senso anche metaforico, a questo materiale incerto viene lasciato a te, lettore ormai assuefatto a essere preso per mano e portato con sicurezza, persino con eccessivo didascalismo, nell’unico, semplice posto dove devi essere portato. Chessò, la soluzione di un giallo. È che poi tutta questa fatica che ti viene richiesta viene anche ripagata. Non so se davvero Frisch alla fine concluda davvero il suo ordito al punto da portarti a capire o se proprio è tutto quello che ci hai messo dentro tu a dare un senso all’opera, però so che arrivi in fondo e non te la dimentichi. Continui a ripensarci e sai che questo è quello che accade solo con la grande letteratura.
L’uomo nell’Olocene, Max Frisch (Einaudi, 108 pp, 17 €)