“Forse tutta quest’igiene di non sperare è un po’ ridicola. Non sperare dalla vita, per non rischiarla; considerarsi morto, per non morire. A un tratto tutto questo mi è sembrato un letargo spaventoso, allarmante; voglio che finisca.” Adolfo Bioy Casares – L’invenzione di Morel
Il Cinema di Emidio Greco è la rappresentazione che, tesa a superare la realtà e a mostrarne le crepe profonde e insospettabili, rifiuta “il letargo spaventoso” della società moderna. Un Cinema impegnato, disilluso e disincantato che racconta in maniera nuova e anticonvenzionale – con una attenzione particolare e una cura degli aspetti politici, sociali e culturali – le epoche della storia; prende spunto dalle forme “distese” che hanno lasciato autori come Sciascia, Borges, Blixen e lo stesso Casares – il debutto di Emidio Greco è stato proprio un adattamento de “L’invenzione di Morel” – nel segno necessario della parola scritta.
Appare doveroso ricordare la preziosa eredità cinematografica che Emidio Greco ci ha lasciato in quasi quarant’anni di carriera, inclusa la collaborazione con la Rai per la quale diresse programmi culturali, documentari e inchieste televisive come “Niente da vedere, niente da nascondere” (1978) e “L’Italia del boom” (1979). Un vuoto enorme, quello lasciato da Emidio Greco che, nello scorso febbraio, a circa due anni dalla scomparsa, il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma ha voluto ricordare dedicandogli una retrospettiva.
Particolarmente intensa e sapiente la produzione cinematografica del regista tarantino. Greco riusciva a costruire atmosfere surreali e perturbanti, scenografie puntuali e magnifiche come quella de “Il consiglio d’Egitto” in cui la cifra stilistica della scrittura di Sciascia incontra la carica espressiva di Greco: entrambi scelgono di tentare la mediazione tra l’illuminismo – e la tensione etica della ragione – con il sentimento pirandelliano, borgeano, per certi versi, del disincanto che deriva dalla consapevolezza di non poter dare un senso e una ragione alla realtà delle cose.
Greco coinvolgeva lo spettatore attraverso una fitta trama di intrighi e inciampi psicologici dei suoi personaggi così simbolici e spesso idealizzati, così vicini alla Nouvelle Vogue alla quale si accostò, ma con esiti del tutto originali. Intellettuale, non intellettualistico, usava la macchina da presa per fermare, incidere sulla pellicola la fisicità della realtà virtuale che scivola disincantata sul reale e ambiguo quotidiano come ne “L’uomo privato”: uno stile ruvido che, nonostante le inquadrature morbide, colpisce con la feroce crudezza di chi “ha mangiato dall’albero della conoscenza e ha perduto per sempre il paradiso”. Emidio Greco sapeva che la sua società, la nostra società, aveva perso il senso dei valori e degli ideali e restituiva con amarezza, partendo da trame essenziali come quella de “L’uomo Privato”, la constatazione del limite e della finitezza esistenziale dell’individuo attraverso immagini concrete, forse più concrete e reali della stessa realtà.
Proprio ne “L’uomo Privato” che vede Tommaso Ragno interprete del tormento inconfessabile e quanto mai in-dissimulabile nonostante la sua evidenza, dell’uomo moderno: in quest’opera, che lo stesso Greco definì come la più intima, il regista magistralmente rappresenta la dimensione ambigua della realtà che rifiuta se stessa. Il tutto reso possibile dall’incontro con un attore di talento, capace di dare fisicità – con uno sguardo, con la voce, con l’incedere – a quel senso comune di insofferenza che si porta addosso mentre, pirandellianamente, si guarda vivere. Regista e attore, in un modo così esclusivamente intenso, traducono in respiro e pensiero, danno forma alla sensazione di restare avvinti, seppure rinnegati, alla meschinità della società moderna statica, immobile di cui facciamo parte e della cui meschinità in parte siamo corresponsabili.
Emidio Greco non ha mai cercato un soggettivismo esasperato: perfino qui, ne “L’uomo privato” dove il protagonista è un professore alto borghese chiamato non casualmente solo con l’iniziale “A”, è evidente una certa coralità. L’uomo si può definire “privato” perché attorno a lui si muovono uno spazio e un tempo tangibili, “privato” perché può allontanarsi da chi lo circonda, celarsi in se stesso solo in funzione dell’esistenza degli altri. È tuttavia emblematico che proprio nel momento in cui un suo giovane studente muoia, la realtà lo travolga rompendo gli argini fittizi, l’aurea che aveva creato intorno a sé. Il diritto, la ragione che illumina, può ancora essere proiettata contro la vita, ma deve adeguarsi alle irregolarità e alle contraddizioni della superficie riflettente: i contorni delle cose reali sono irregolari, le ombre indefinite. Così, l’uomo privato rimane spettatore della sua azione, forse ancora più distante.
Le donne di Emidio Greco sono fin dal principio creature forti e anticonvenzionali: Delia Boccardo in “Uno due e tre” – saggio di diploma del cineasta – rifiuta l’amore borghesemente rispettabile dei due uomini-simbolo di una sfiorita e convenzionale ars amandi. È, questa, una vera e propria dichiarazione di poetica del giovane regista che costruirà personaggi femminili sempre più complessi, un esempio per tutti, l’ancella Ehrengard dell’omonimo film presentato al Festival di Venezia del 1982.
Molto spesso ed in modo privilegiato Emidio Greco ha scelto attori di Teatro per il suo Cinema, un Cinema che chiede i suoi tempi e i suoi spazi, le sue linee interpretative, precisione nella puntualità delle intenzioni.
Quello che sicuramente resta dalla visione di uno qualsiasi suo film, sia che si tratti di un adattamento cinematografico di un prodotto letterario – come nel caso di “Una storia Semplice” tratto dall’omonimo romanzo di Sciascia, Nastro d’Argento alla sceneggiatura -oppure di un suo soggetto scritto e sceneggiato ex novo, è la certezza che Emidio Greco ci stia dicendo che dobbiamo smetterla di annoiarci. Il suo disincanto non è proiettabile in un bieco nichilismo: sta a noi, ci spiega con lo slancio e il tepore meridionale che si fa largo nella spessa immobilità di alcune scene, decidere, tutto è ancora da dire e da scrivere, sta solo a noi pensare che forma può mai avere questa nostra “libertà”.
Written by Irene Gianeselli