Possiamo dire giochiamo a calcio, giochiamo a tennis. Possiamo dire gareggiamo
nella corsa, nel salto in lungo, nel lancio del disco. Ciò che non possiamo dire
è giochiamo al pugilato o gareggiamo sul ring. Nella boxe non si gioca, si
combatte. Volano le mani, si danno pugni in faccia e nello stomaco. Non per
finta. È tutto vero. Tanto che nel pugilato dilettantistico delle Olimpiadi,
oltre ai classici guantoni, c’è anche la copertura del capo e di parte del
volto. Perché i pugni son veri.
La nazionale italiana olimpionica di pugilato
è composta da sette pugili, di cui cinque campani e il più noto è Clemente Russo
da Marcianise. Quattro anni fa, a Pechino, vinse l’argento. Oggi non nasconde né
a sé né agli altri di combattere per la medaglia d’oro. Ha detto: «Noi pugili
non possiamo regalare soldi, ma sorrisi sì». Non è una disciplina in cui si
diventa ricchi, se praticata tra i dilettanti. Invece, tra i professionisti -
pesi medi e pesi massimi – i soldi vengono giù a palate. Più pugni dai, più
soldi prendi. Ma la boxe dei professionisti è uno sport in crisi da molto tempo.
L’ultimo grande pugile è stato Cassius Clay o Muhammad Alì: dopo di lui c’è il
nulla o quasi. Il pugilato mondiale si divide in una sterminata serie di
associazioni e federazioni con la perdita della credibilità internazionale e
seguire il susseguirsi dei campioni che si contendono il titolo mondiale diventa
di fatto impossibile o inutile. Ecco perché la salvezza del pugilato è nel
dilettantismo e nei Giochi. Ha ragione Clemente Russo che poco prima di salire
sul ring contro l’angolano Tumba Silva dice: «Siamo orgogliosi di aver
contributo a salvare questo sport: il pugilato si stava inabissando. Bello
essere uno dei trascinatori della nazionale, è la cosa a cui tengo di più, a
prescindere dalla medaglia d’oro».
Ad introdurre il pugilato alle
Olimpiadi furono i greci nel 688 con la XXIII Olimpiade e il primo vincitore fu
Onomasto di Smirne. Gli etruschi furono grandi estimatori del pugilato e lo
trasmisero ai romani che ne ebbero gran considerazione. La tecnica antica
ricorda quella attuale, ma era più pericolosa. I padri del pugilato moderno
trasformato in sport sono – manco a dirlo – gli inglesi. È l’inglese James Figg
il primo pugile della storia che combatte a pagamento ed è sua la definizione di
noble art of self defense da cui deriva la storia della “nobile arte”. Perché il
punto sta proprio qui: la nobiltà dell’arte è nella difesa. Spesso il pugile più
forte e vincente non è quello che fa più male ma quello che si difende meglio e
colpisce l’avversario al momento giusto. Questo modo di combattere passerà alla
storia come “principio Mendoza” dal nome del pugile inglese di origini spagnole
che pur appartenendo alla categoria dei pesi medi decise di diventare campione
dei massimi perché era questo l’unico titolo riconosciuto e apprezzato nel mondo
della boxe che sul finire del Settecento si andava affermando. Daniele Mendoza
giocherà le sue carte non sulla forza ma sulla tecnica e con lui nascerà il
pugilato moderno. La “boxe danzata” di Cassius Clay, forse la boxe più bella che
mai si sia vista, ne sarà la massima espressione. Il pugilato è uno sport per
poveri e per ricchi: è interclassista. È questo l’elemento sociale che ne farà
la fortuna a cavallo tra Ottocento e Novecento. Anzi, al suo inizio la boxe è
praticato dai ricchi che da sempre si affrontano in duelli armati: il pugilato è
un duello senza spada. A bordo ring non ci sono solo lavoratori ma anche
borghesi e aristocratici. Nel primo Novecento la boxe recluta i suoi campioni e
i suoi fenomeni tra i poveracci ai quali non resta che prendere la vita a pugni.
Il fenomeno italiano più noto è Primo Carnera: talmente fenomeno che
quando nacque pesava 8 chili e a tre anni 30. La storia di Carnera sembra
appartenere al mondo del mito più che a quello storico: a oltre ottant’anni dal
suo titolo mondiale, la figura di questo gigante che divenne boxeur è ancora
presente nella memoria del Paese. Fu pugile, attore al cinema, fece parte della
compagnia di Rascel, nel dopoguerra in America divenne campione di lotta libera.
Carnera, il gigante buono, faceva tenerezza. Gianni Brera ne L’arcimatto scrive:
«L’ideale uppercut di Carnera è una carezza che ci fa vergogna: non l’ha vibrato
mai così dolce: l’ha appena accennato, ma per confonderci tutti. Al famoso bivio
celeste, il diavolo riceverà quello stesso pugno in pieno ventre. Allora il
vecchio san Pietro, per solito molto distratto, crederà di aver sentito
fragorosamente sonare alla porta del paradiso e aprirà subito, ma senza doversi
pentire». Le storie dei pugili fanno quasi tutte tenerezza. Guardate Alì. È il
paradosso di questo che dopotutto è e resta uno sport estremo. Sul ring si vince
e si perde. Ma sul ring c’è anche la morte. Fa impressione la lista dei pugili
morti sul ring o a causa del combattimento. Nel giro di un secolo i morti sono
qualche centinaio. Il primo campione italiano, Piero Boine, muore nel 1914,
ventiquattro giorni dopo la difesa del titolo, persa contro Eugenio Pilotta. Il
10 febbraio 1933, al Madison Square Garden di New York, lo statunitense Ernie
Schaff, 24 anni, va ko alla tredicesima ripresa sotto i colpi di Carnera.
Trasportato in ospedale e operato al cervello, muore quattro giorni dopo. La
morte sul ring ha colpito anche i dilettanti, come il greco Dimitri Livadas,
morto pochi giorni dopo aver combattuto e vinto. Impressionante è anche la
casistica dei pugili morti a causa di tragici incidenti: si va da Marciano a
Monzòn da Marcel Cerdan a Tiberio Mitri morto il 12 febbraio 2001, travolto sui
binari dal treno Roma-Civitavecchia all’altezza di Porta Maggiore, a Roma. La
sua storia sembra quella del titolo del romanzo di Brera: La ballata del pugile
suonato. Lui stesso l’ha raccontata nel bel libro La botta in testa dettato a
uno scrittore rimasto ignoto. Quando salì sul ring per tirare contro Jake La
Motta la sera del 12 luglio 1950, giorno del suo ventiquattresimo compleanno, il
“Toro scatenato” ebbe l’impressione che Tiberio Mitri «non aveva troppo
equilibrio: e un grande pugile è difficile che abbia poco equilibrio». Eppure,
l’incontro arrivò fino alla quindici riprese e l’italo-americano Jake La Motta
vinse ai punti ma con verdetto unanime contro il pugile italiano che divenne
famoso presto e uscì di scena più presto, diventando allo stesso tempo famoso e
fallito. Disse: “Tutto ciò che si crea con fatica in una vita, si può
distruggere in dieci secondi”. È la boxe.
tratto da Liberalquotidiano.it del 2 agosto 2012