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La bambina che sapeva troppo (What Was Lost)

Creato il 18 settembre 2014 da Povna @povna

Romanzo di esordio interessante e intuitivo per un’autrice, Catherine O’Flynn, che avrebbe meritato – once more, come capita purtroppo spesso ai britannici – una ricezione italiana meno di nicchia. La struttura, a piani temporali sfalsati e focalizzazione che è insieme variabile e multipla, copre un arco temporale di circa vent’anni, a scandagliare l’era del secondo boom economico anni Ottanta (non se ne parla, ma il thatcherismo resta in sottofondo), l’esplosione dei grandi Mall e del consumismo compensativo-compulsivo, e le sue conseguenze (degradate, e degradanti) nell’età degli anni Zero. In questo senso il titolo originale, What was lost (la traduzione italiana, La bambina che sapeva troppo, oltre a rivelare la consueta mania per la riscrittura di titoli perfettamente traducibili, tradisce proprio il senso del romanzo tout court), rimanda non solo ai personaggi che sono oggettivamente ‘spariti’ (e che costituiscono il motore narrativo della vicenda, nelle sue connessioni tra i due piani temporali), ma anche – e con una sfumatura volutamente più socio-antropologica – a ciò che nella progettazione dell’esistenza umana è stato perso nella rincorsa progressiva e globale che ha cambiato il volto di esistenze e di città. In mezzo, ci sono i temi classici del romanzo postmoderno sull’appiattimento ossessivo-compulsivo del quotidiano che De Lillo ha descritto perfettamente in Rumore bianco (ma ci si può mettere anche Franzen, ovviamente; e pure l’ossessione per l’alienazione mercificatoria di Houellebecq): il Mall come macchina progressivamente mangia-tutto, dalla periferia urbana, al lavoro, alle esistenze dei singoli, e, soprattutto, come piccola mostra delle atrocità, grande esposizione contemporanea, catalogo postmoderno di una infinita varietà di merci da comprare, pronte a essere tritate e inutilmente ed eternamente rinnovate (e che evocano, dunque, l’inutile e costante replicabilità del quotidiano); il rumore di sottofondo (la musica del negozio, le voci dello shopping centre) che cancella ogni possibilità di dialogo; la centralità dei temi dello sguardo (le telecamere del Mall, che scrutano i corridoi creando la costante impressione di essere osservati a distanza), da evoluzione da Big Brother. Ma sono motivi, e questo è un merito oggettivo dell’autrice, che, in un romanzo del 2007, vengono presentati come dato di fatto, elemento con cui necessariamente confrontarsi. Poi, come sempre in romanzi latamente distopici (il suggerimento, ovvio, è che il futuro aggressivo evocato da tanta science fiction sia già qui, e non ce ne siamo accorti – non a caso il passato del romanzo è ambientato in un significativo 1984), la possibilità di una scappatoia è lasciata all’iniziativa individuale, e (forse) al risveglio di passione e sentimenti. E questa (pur non raccontata, e forse nemmeno raccontabile) resta per l’autrice (che da brava britannica crede nell’ottimismo della volontà assai più dei suoi colleghi d’oltre-oceano) la possibilità di un’altra storia.

(Un’altra volta venerdì, il primo di scuola di settembre, un’altra volta venerdì del libro).


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