"La bambina che scriveva sulla sabbia" di Greg Mortenson

Creato il 08 aprile 2011 da Sulromanzo

La bambina che scriveva sulla sabbia è il secondo lavoro di Greg Mortenson (tradotto, in Italia, da Studio Editoriale Littera). In esso vengono raccontate tante storie diverse, storie di persone che hanno acquisito l’importanza dell’istruzione che, in questo contesto, riguarda soprattutto le bambine. Alcune storie hanno come protagonisti bambini ai quali era stata negata la possibilità di imparare a leggere e scrivere. Altre parlano invece di adulti che, forse, si erano rassegnati a vivere tra i confini del proprio villaggio e credevano che quello stesso destino sarebbe toccato anche ai loro figli.

Greg Mortenson apre loro gli occhi e dona loro la speranza di un futuro che può e deve essere migliorato. L’istruzione delle bambine rappresenta, in questo mondo isolato e sotto assedio, un’apertura verso l’altro, verso chi non si conosce e si teme come fosse un nemico. Verso lo straniero per esempio, proprio come ciò che è Mortenson per gli abitanti di piccoli villaggi tra Pakistan ed Afghanistan. Non gli credono, all’inizio. Ma si fanno promettere che tornerà e costruirà scuole e troverà insegnanti (e studenti).

È un progetto ambizioso, questo. Soprattutto perché Greg rifiuta i contributi statali – che lo costringerebbero ad operare in zone specifiche (grandi città, per esempio) facilmente raggiungibili e più famose. Lui, invece, vuole occuparsi degli emarginati – nel vero senso della parola. Questo secondo lavoro editoriale, infatti, racconta aspetti del progetto legati al Nord-Est dell’Afghanistan. Ma è un’idea nella quale lui, e molti altri che incontra sul suo cammino, credono tanto, anche forti dei piccoli e grandi successi degli ultimi diciassette anni di lavoro, anni nei quali l’idea ha preso forma ed è stata, lentamente, concretizzata.

Raccontarla serve anche a questo: a far sì che i successi iniziali non rimangano isolati. Parlarne sì, ma come? Forse non esiste la formula migliore, ma, pur sostenendo il progetto, credo questo libro sia meno efficace di quanto avrebbe dovuto essere. Nella parte iniziale, quando il lettore sfoglia incuriosito le prime pagine, le parole dovrebbero sedurlo, convincerlo a continuare la lettura.  Le prime settanta pagine, invece, hanno annoiato questa lettrice perché sembrano quasi scritte per un manuale di storia, uno di quelli che riportano gli avvenimenti in maniera disordinata: passato, presente, un passato lontanissimo, il presente, il passato, il futuro e così via.

Purtroppo, molti aspetti culturali raccontati da Mortenson - e generalmente ignorati dai manuali -passano quasi inosservati perché ci sono troppe parole, troppi dettagli che spesso sembrano messi insieme in maniera frettolosa. I protagonisti di queste storie, però, hanno tanto da insegnare, anche a noi occidentali, perché tutto ciò che hanno è frutto di grandi sacrifici. Penso alla storia di Nassreen, per esempio, una donna che dopo anni di “fatica e frustrazione” riesce ad iniziare il difficile percorso scolastico che, nel 2012, le permetterà di realizzare il sogno di diventare ostetrica.

Forse i fatti avrebbero dovuto essere relegati a fine volume, anche se basterebbero poche parole per ricordare al lettore un passato troppo importante per essere dimenticato e suscitare in lui, o lei, pathos.

“Sono spiacente” disse.  “Un villaggio di nome New York è stato bombardato.” (p 105)

A fine volume, invece, troviamo una lettera dell’autore con i ringraziamenti e qualche altra idea da sviluppare; un glossario; una decina di pagine sull’importanza dell’educazione femminile e su come realizzarla. E forse è da qui che si deve iniziare a leggere, dalla fine.


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