Peppino De Filippo e Totò
Tra le pellicole meno celebrate del “principe della risata”, La banda degli onesti merita invece di essere inserito tra i titoli più riusciti della sua filmografia, con una prova attoriale sobria, misurata, capace di suscitare il riso come la riflessione, con sfumature d’amarezza: Totò, riesce a mediare, sulla falsariga di quanto già fatto, egregiamente, in Guardie e ladri, ’51, Steno e Monicelli, tra comicità surreale, cui concede qualche controllato lazzo, al pari delle intemperanze verbali, tra i consueti nonsense linguistici e storpiature grammaticali, e quella d’impronta più realistica, tenendo la scena praticamente da protagonista assoluto per i primi 25 minuti, regalandoci, con valente uso della mimica, gag silenti impagabili (il volto contrito dal dolore sulla porta del palazzo, alla morte del suddetto funzionario, o il tentativo di stampare la banconota inumidendo il cliché come fosse un francobollo…).
Giacomo Furia, De Filippo e Totò
Man mano che poi entrano in scena Furia, uno dei nostri più grandi caratteristi, e De Filippo, Il Principe riesce ad integrarsi al meglio con i due, dando vita a dei siparietti esilaranti (Peppino vittima sacrificale, la cupidigia e la bramosia di potere spiegati da Bonocore a Lo Turco al bar, usando zucchero e una tazza di caffè, il tira e molla nel dare vita al piano, la stampa delle banconote “in accelerazione”, come nelle vecchie comiche) sfruttando, assecondato, la bonomia del primo e la capacità del secondo di sapersi rendere ora funzionale ora complementare ai fini della risata.Per quanto però il tutto poggi su una scrittura molto valida (Age & Scarpelli), nella quale è possibile riscontrare un anticipo, in abbozzo, di certe tematiche che saranno proprie de I soliti ignoti, ’58, (d’altronde gli sceneggiatori sono gli stessi, cui andranno ad aggiungersi Monicelli, regista del film, e Suso Cecchi D’amico), differentemente da quest’ultimo, complice la regia incolore, quando non latitante, di Camillo Mastrocinque, La banda degli onesti appare spesso in bilico tra i toni della farsa, sfruttando ancora una comicità tipica dell’avanspettacolo, e quelli di un umorismo meglio definito, comprensivo di risvolti dolenti, proprio delle maschere della Commedia dell’Arte, venendosi a creare un certo squilibrio complessivo nella resa definitiva dell’opera, che vanta anche un validissimo contrappunto musicale (Alessandro Cicognini).