La banda degli onesti è un ponte verso l’ingresso nella Commedia all’italiana propriamente detta: prelude a I soliti ignoti, ma Totò e Peppino sono ancora fondamentali in tutti i meccanismi comici. L’apporto delle gag e della sintonia tra i due attori è sicuramente indispensabile per la buona riuscita del film, ma c’è qualcosa che lo arricchisce, cioè un soggetto che non sia necessariamente cucito addosso a Totò, ma che potrebbe virtualmente essere interpretato anche da altri attori. La trama è solida, la sceneggiatura è ben congegnata e puntellata da una serie di svolte narrative: quelle che si dicono set up e pay off e che Age definisce rimonte,[1] cioè una serie d’indizi lasciati silenziosamente agire nel corso del tempo che riemergono poco alla volta o in maniera necessaria e inaspettata, per dirla con Aristotele.[2] Quello che appare il pregio maggiore del film, se si tiene conto che appartiene agli anni Cinquanta e soprattutto se lo si confronta con buona parte della narrativa italiana, anche televisiva, è questo: La banda degli onesti è più progressista e non è pedagogico in modo esplicito e pedante. Il finale è comunque consolatorio ed edificante perché vuol condannare il reato, ma lo fa senza proclami à la Don Matteo, riuscendo in più a sdrammatizzare: se una ricchezza ottenuta senza onestà deve suscitare sensi di colpa e malumori, meglio disfarsene. Solo mostrando pregi e difetti di un comportamento attraverso una storia, senza mettere in bocca ai personaggi una predica e senza che si sia una sproporzione troppo grande tra protagonisti e antagonisti, personaggi positivi e negativi, si può intrattenere e divertire in modo completo, intelligente e non invadente lo spettatore. Come si è ricordato anche in precedenza, è il magistero operato da Sergio Amidei che influisce su quest’aspetto della scrittura di Age e Scarpelli: l’osservazione empirica ed empatica della realtà, piuttosto che il suo snocciolamento attraverso dialoghi che si sostituiscono alle azioni.
[1]Age, Scriviamo un film, Milano, Il Saggiatore, 1996 (3^ ed. 2009).
[2]Il riferimento è alla Poetica: per Aristotele, il miglior finale è quello necessario (per lo svolgimento del dramma) e inaspettato (per lo spettatore) allo stesso tempo. Si può estendere questo concetto senza che perda la forza originaria a una qualsiasi svolta drammatica di un racconto.