Se volete un consiglio disinteressato, non prendetevi Davide Zoggia come commercialista. Meglio andare al Caf, meglio farsi la denuncia dei redditi da sé, con il libretto di istruzione che regala il Sole 24 Ore.
Perché o è corrotto – o almeno incline a comportamenti inopportuni spericolatamente disinvolti, o dimostra una inguaribile indole a ritenere che esista una cerchia, un ceto che non deve sottostare alle regole cui sono soggetti i normali cittadini, di legittimità o magari soltanto di eleganza e buona educazione, oppure è innegabilmente incompetente, superficiale, impreparato.
Tirato in mezzo nello scandalo Mose, grazie a un fogliettino – la cupola del Consorzio aveva raccomandato che fosse in carta commestibile, ingoiabile, mangiabile insomma come tutto in quel contesto – nel quale accuratamente erano annotate le somme messe generosamente a sua disposizione, come contributo elettorale e come emolumenti per due “consulenze” e affidato a una segretaria, si immagina ben remunerata per i suoi servizi eccezionali, che lo aveva conservato in casa degli anziani e ignari genitori, l’ex presidente della provincia di Venezia – non di Kuala Lumpur – poi responsabile organizzativo del Pd, che poi ha visto finalmente riconosciute le sue qualità con un bel posto in Parlamento, si discolpa sprezzante. Mica fa lo gnorri come i beneficati di Anemone, mica si proclama messo in mezzo a sua insaputa, macché, no, lui rivendica di aver fatto il suo lavoro di ragioniere “commercialista”, punto e basta.
Sembra proprio l’Ilva, sembra proprio l’Expo, sembra proprio l’inanellarsi di scandali, malversazioni, pastette e pastone che colgono tutti di sorpresa, che stupiscono perfino i protagonisti, che sconcertano indigeni e osservatori esterni per presenze e attori considerati universalmente custodi di integrità e moralità, anche quando hanno ostentatamente difeso interessi opachi o perlomeno discutibili.
Sarà difficile per Renzi, per Lotti, per la Moretti dichiarare che Zoggia non è iscritto al Pd, sarà difficile per Zoggia essere credibile nel proclamare che il Consorzio Venezia Nuovo, caso non unico di allegoria del conflitto di interessi e di competenza, fosse un cliente come un altro, o nel sostenere che nulla si sospettava sui comportamenti un po’ troppo spigliati e arditi dei suoi manager compreso quel Baita che non si era accontentato di Tangentopoli e faceva il bello e il cattivo tempo nella più potente e inviolabile cordata affaristica della città, la stessa della cui Provincia, lui, il Zoggia, era presidente. Che in fondo bastava leggere il Gazzettino, andare a comprare i carciofi a Rialto, bere un goto in un bacaro, prima di rivolgersi a così discutibili supporter per chiedere “legittimi” contributi elettorali o per farsi dare un’altrettanto legale consulenza.
Ma immaginiamo già la reazione di Renzi e dei suoi: in fondo Zoggia appartiene al vecchio non abbastanza rottamato, in fondo era già un notabile, presidente di una provincia dal 2004 al 2009, proprio gli stessi anni in cui ricopriva lo stesso ruolo a Firenze l’attuale premier, ma vuoi mettere la differenza. E poi ha avuto incarichi di partito con Epifani, la cui eclissi più oscura di quella dei Jalisse, è certamente meritata. E poi era bersaniano, proprio come la Moretti, si, ma vuoi mettere…
Soprattutto Zoggia ha una colpa, è nato qualche anno prima, caratteristica permessa solo a padri putativi, ministri precettori, finanziatori alle Cayman, sacerdoti del Made in Italy e grandi chef mediatici. Per il resto il pensiero forte è convinto che l’appartenenza generazionale alla gioventù, sia pure piuttosto elastica, sia condizione sufficiente a garantire moralità, onestà, integrità, trasparenza. Tanto da sdoganare sottosegretarie piuttosto discusse, purché nel fiore degli anni. O ministri incompetenti purché imberbi. Che in virtù di ormoni esuberanti, cellule fresche, muscoli allenati non possono essere biologicamente portati a furto, corruzione, malaffare.
Una volta era soprattutto la chiesa a agire con una manipolazione della scienza in modo da piegarla alle ragioni di un’etica di parte, adesso ci si mette anche il Pd. Che infatti sostiene addirittura che il problema non sono le regole, ma i ladri, categoria antropologica a se stante, minoranza, si fa per dire, facilmente individuabile e emarginabile, che se poi non è iscritta tanto meglio.
Così dopo aver elevato a icona simbolica della lotta alla corruzione un magistrato, come d’altra parte hanno imparato a fare aziende che li vanno a cercare come commissari – foglia di fico, partiti che vogliono sciacquare i panni, sindaci preoccupati dell’andamento di conti e appalti, Renzi pensa di aver fatto abbastanza. Imbalsamato nella stessa sede dell’ormai dimenticata CiVit, solo, perché la nomina degli altri consiglieri non ha trovato posto nella fitta agenda del governo, senza poteri speciali, mentre ogni giorno esplode una nuovo caso dirompente, a Cantone resta come gesto esemplare di dare le dimissioni e non prestarsi a coprire le ipocrite acrobazie di un governo decisionista che ha avocato a sé tutti i poteri per non decidere in materia di regole per conti cifrati all’estero, abrogazione della prescrizione dopo il rinvio a giudizio, introduzione del reato di intralcio alla giustizia, autoriciclaggio, ecc., oltre alle restaurazione e/o ampliamento e/o inasprimento per falso in bilancio, voto di scambio, aggiotaggio e tutto il repertorio dei crimini da colletti bianchi, che poi assomigliano così da vicino a quelli delle mafie, che il responsabile dell’Autorità dovrebbe conoscere bene.
Ma si sa le dimissioni non piacciono a nessuno, sono roba da disfattisti, da rinunciatari, da gufi, come l’autocritica, come l’assunzione di responsabilità, roba, avrebbe detto un tempo Berlusconi, da “comunisti”.
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