“Là-Bas” ovvero laggiù, oltre lo sguardo, lontano da casa. Con questa espressione colloquiale il regista esordiente Guido Lombardi ha raccontato la storia di Yussouf e, più in generale, quella di tanti altri immigrati in Italia.
“Là-Bas – Educazione Criminale” è una produzione di Eskimo, Figli del Bronx e Minerva Pictures Group, distribuita da Cinecittà Luce. Cento minuti per raccontare in francese la storia della comunità africana di Castel Volturno. Quanto basta per ricevere il “Leone del futuro – premio opera prima Luigi De Laurentis” alla 68° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
“Là Bas” è una pellicola che colpisce veloce e diretta, anche grazie al suo modo di fondere cronaca e finzione, verità e verosimile, in un continuo intreccio che non scade nella retorica del senso di colpa – tipicamente occidentale – nei confronti della figura dell’immigrato.
Siamo a Castel Volturno, a circa 44 chilometri da Napoli. Yussouf ( KADER ALASSANE) è appena arrivato in Italia. Si aspetta un futuro ricco di lavoro con lo zio Moses (MOUSSA MONE). Sulla sua strada anche un amore inatteso: Suad (ESTHER ELISHA), giovane e avvenente prostituta.
Purtroppo, la realtà si scaglia contro la finzione.
Yussouf si trova dinanzi ad una scelta comune tra gli immigrati appena arrivati: una giornata di lavoro al semaforo, alla fine della quale ti ritrovi qualche spiccio in tasca, oppure fare il grande colpo, quel che non avresti mai potuto fare seguendo il binario fisso dell’onestà e del sudore.
Infatti, se lo zio Moses riesce a vivere in Italia senza troppi sforzi, è grazie ad un giro milionario di cocaina. Un bivio che comporta una scelta necessaria per sopravvivere. E tra il sudore e la cocaina, Yussouf sceglie la seconda.
Fin qui, nulla da eccepire, se non fosse che la cronaca di cui parlavamo prima, entra e reclama la scena per sé. L’ingresso è quello della strage di Castel Volturno, avvenuta il 18 settembre 2008 e che ha visto la morte di sei ragazzi africani sotto i colpi d’arma da fuoco della camorra.
Colpi casuali, diretti più a colpire un gruppo concorrente negli affari che i singoli individui – verosimilmente colpevoli in quanto africani. Il film è stato dedicato alla memoria dei ragazzi.
“Là Bas – Educazione criminale” è questo e molto altro. Ne parliamo con il regista, il napoletano classe 1975 Guido Lombardi.
Parlare di immigrazione con il rischio di cadere nella retorica era un pericolo nel quale potevi imbatterti facilmente. Hai schivato il proiettile. Cosa ti ha aiutato nel ritrarre la vita degli immigrati senza connettere a quella visione il senso di colpa tipico dell’occidentale?
Io non volevo ritrarre la vita di un immigrato, io volevo raccontare la storia di persone che, per lavoro, avevo conosciuto a Castel Volturno. Il protagonista è un mio amico, conosciuto circa 7-8 anni fa. Era più una condizione umana quella che volevo raccontare. Ero più orientato a mostrare l’umanità di Castel Volturno. Oggi l’immigrazione coinvolge in maniera preminente africani e nord africani, ma all’inizio del secolo riguardava noi italiani in Sud America o negli Stati Uniti. Non c’è nel film l’idea di un immigrato in particolare. Poi, è vero, l’ho reso ancor più specifico narrando di quel pezzetto d’Africa che vive a 40 chilometri da Napoli.
Che lavoro di documentazione hai fatto su Castel Volturno?
Più che documentato, l’ho vissuto. Per quanto riguarda la strage del 2008 ed il relativo processo, mi sono basato sull’ordinanza di custodia cautelare – l’unica cosa esistente all’epoca delle riprese. Abbiamo azzardato un ipotesi, che di fatto seguiva gli indizi del processo.
Altra fonte di ispirazione è stato sicuramente il libro di un giornalista – Sergio Nazzaro – chiamato “MafiAfrica” che si basa su una serie di inchieste fatte negli anni da polizia e carabinieri. Racconta una realtà addirittura più cruda di quella che io ho raccontato.
Avevi paura di risultare troppo cruento e diretto?
Beh, sì, in alcuni tratti. Ad esempio, in una scena che mi sono inventato, una donna muore dopo aver ingoiato diversi ovuli di cocaina. Viene poi squartata dagli spacciatori per recuperare la droga. Io ho semplicemente immaginato cosa poteva accadere se il corpo fosse finito in mano a chi doveva effettuare la consegna, piuttosto che nelle mani di polizia e carabinieri, come invece la cronaca spesso racconta.
Ho usato la logica: dentro a quel corpo, in fondo, ci sono 60 mila euro. Che cosa avrebbero potuto fare?
Poi ho letto del sospetto – su Mafiafrica – di sacrifici umani ed ho realizzato che, in fondo, non sono stato neanche troppo cruento.
Con “Là Bas” hai anche raccontato un conflitto tra due comunità – chiuse ma decisamente fraterne: la camorra e la comunità africana…
In parte sì, è vero. Nell’accoglienza riservata a Yussouf – il protagonista – vi è un minimo di ospitalità, che deriva anche dalla religione musulmana. Hanno diverse reti. Quattro o cinque anni fa ho anche partecipato ad una riunione dei burkinabe di Castel Volturno per spiegare loro il progetto in modo che loro potessero decidere se appoggiare o meno il film.
Ci sono diverse case – come quella che accoglie Yussouf nel film – che gli africani conoscono ancor prima di partire per l’Italia. Sanno che lì – nel peggiore dei casi -almeno un letto ed un pasto lo trovano. O perlomeno, fino alla prima settimana di soggiorno.
Nella tua carriera hai collaborato con Abel Ferrara. Ti ha influenzato nella regia o nel tuo modo di lavorare?
Ho fatto l’operatore di Abel nel suo documentario “Napoli Napoli Napoli”. Apprezzo molto il suo lavoro, ti cito ad esempio “Cattivo tenente” tra i suoi film. Come con tutte le persone con cui collabori, una certa influenza alla fine esce fuori, ma visto che ho collaborato anche con altri registi, come Capuano e Sorrentino, devo riconoscere che anche il loro modo di fare la regia mi ha influenzato. Da ognuno di loro ho appreso qualcosa. È inevitabile.
Oltre ad essere un regista, hai studiato sociologia. I tuoi studi hanno influenzato in qualche modo la preparazione di questo film?
In qualche modo, la storia di Yussouf è un apologo quanto più universale e sociologico. Quel che gli accade è sempre in qualche modo esemplare: ho cercato di fare lo sforzo di individuare la condizione umana che al meglio potesse raccontare lo status di immigrato. In questo senso, a questo schematismo sociologico ho aggiunto un forte parte narrativa, che fosse in grado di emozionare e raccontare.
Ho cercato di fornire una serie di simboli, magari non direttamente ma in grado di lavorare dentro e raggiungere lo spettatore successivamente.
Ad esempio, nella scena finale del film, Yussouf viene abbracciato da una bandiera. I colori sono usati da circa 13 paesi africani e non da una sola nazione specifica.
In fondo, è quello che è accaduto agli italo americani e nelle altre Little Italy. Era il loro modo per riuscire a stare in una realtà esterna più complessa.