Proprio in queste ore, 98 anni fa, stava per iniziare la conta dei caduti nella Battaglia del Col Basson, primo grande scontro della Grande Guerra nel quale i soldati del Regno d’Italia, gli italiani, falciati dai mitragliatori austroungarici e spazzati via da una pioggia di bombe che illuminò a giorno la notte del 24 agosto, persero 1091 militari: 1048 soldati e 43 ufficiali. Un conto salatissimo quasi del tutto pagato con sangue del 115º Reggimento della Brigata Treviso. Eppure anche in quella tragica pagina di guerra, c’è un aspetto a mio avviso commovente: la bandiera.
Dopo iniziali e comunque costosissimi progressi sul fronte nemico – ricordarono i superstiti – gli austriaci, grazie ad un contrattacco guidato dal loro comandante, il Col. Ellison, riguadagnarono terreno. Dunque i soldati italiani ancora vivi, molti dei quali feriti o gravemente feriti, cercarono di tornare alle loro postazioni. Ma non a mani vuote: volevano la bandiera. La loro bandiera, andata persa durante l’alluvione di fuoco e piombo cui furono sottoposti non doveva assolutamente essere lasciata sul campo: gli ordini del colonnello Riveri, anch’egli gravemente ferito, furono chiarissimi.
Alla fine il tricolore, grazie all’eroismo di un nostro soldato, rimase in mani italiane. E tornò a casa, come si usa dire. Ora, non so voi, ma pur nella condanna di quella guerra – come di ogni guerra, del resto –, mi riesce difficile non provare commozione per il coraggio col quale degli uomini feriti nel corpo e nello spirito da una disastrosa sconfitta, scelsero di non ritirarsi senza bandiera. Potevano fuggire, disertare, anteporre quello che per loro essere l’ultimo pezzo di vita ad un pezzo di stoffa, ma non lo fecero. Quando guardiamo sventolare un tricolore, ricordiamoci anche dei quei ragazzi: sconfitti, ma eroici. Abbattuti dal fuoco, sorretti da un immenso orgoglio.