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La beat generation al cinema

Creato il 25 febbraio 2014 da Lesmotsblog
nealcassady

Neal Cassady davanti a un cinema

Con quattro film in quattro anni, il cinema ha mostrato una sorprendente curiosità verso una generazione che ha regalato alla letteratura americana alcune delle più grandi opere della sua storia.
La curiosità non è stata in tutti i casi affiancata dall’autentico desiderio di comprendere con qualche profondità quelle opere. Non dirò il loro messaggio, termine che, se è di per sé già portatore di diffidenze e musi storti, in questo contesto sarebbe più che mai fuori luogo. Aggiungerò che forse una delle ragioni del fallimento di almeno una delle pellicole sia stata nel voler cercare un messaggio laddove era disonesto presumerlo.
Quando lessi per la prima volta che Kerouac stesso ammetteva la possibilità di trarre un film da On the road, ne fui colpita molto negativamente.
Chi ha letto ed amato On the road sa ch’è un’opera assolutamente intraducibile in altri linguaggi, e non alla maniera in cui qualsiasi trasposizione cinematografica tradisce la prosa che vuole tradurre.
Il lettore di On the road, si trova posto di fronte alla quasi totale impossibilità di un accesso diretto ai personaggi, fatta eccezione per Sal Paradise, alter ego di Kerouac stesso e voce narrante del libro. Tutto, dal primo panino consumato, all’ultimo chilometro di asfalto percorso, tutto è estremamente filtrato dagli occhi di Sal, così che, con una prepotenza rara in letteratura, non abbiamo accesso che alle sue visioni.
Il cinema ci pone davanti i personaggi in carne ed ossa e questo è di per sé un passo nella direzione contraria all’inaccessibilità ad essi, costruita così bene da Kerouac.
L’inaccessibilità di cui parlo non è un limite del romanzo, tutt’altro. È la capacità del suo autore di farci vedere tutto tanto chiaramente, con una forza tanto viva e concreta, e anzi proprio così direttamente, che noi siamo Sal stesso e non possiamo vedere che coi suoi occhi. Tale meccanismo è portato al suo estremo col personaggio di Dean Moriarty, che finiamo col venerare proprio alla stessa maniera in cui lo venera Kerouac.
L’unico a sfuggire a questa inaccessibilità, o, che è lo stesso, a questa accessibilità estrema, è Sal stesso, il solo personaggio potenzialmente cinematografico di tutto il libro, il solo personaggio romanzesco, l’unico per il quale un invito sullo schermo non sarebbe una bestemmia, o almeno un tentativo del tutto disperato.
Quando scrisse a Marlon Brando chiedendogli di acquistare i diritti di On the road, Kerouac propose se stesso per il ruolo di Sal, il che mi pare pure significativo della diffidenza a mettere i propri personaggi, qui il proprio alter ego, in mano ad altri.
La prima cosa che mi venne in mente quando lessi dell’idea del film, fu che forse Kerouac aveva soltanto bisogno di denaro, ed è effettivamente quanto dice nella lettera a Marlon Brando: voglio sistemare me e mia madre per sempre ed essere libero di dare ai miei amici qualcosa da mettere sotto i denti quando hanno fame.
Ma quel che è più interessante della lettera a Brando è che, proponendogli di interpretare il coprotagonista Dean Moriarty (ispirato all’amico Neal Cassady), Kerouac promette che gli mostrerà come si comporta nella vita reale, perché non potresti immaginarlo senza una buona imitazione. Ecco ancora una volta un Dean visto attraverso lo sguardo di Sal, il Dean inaccessibile se non tramite Sal, il Dean da libro e non da cinema.
E’ questa la ragione per cui, quando Walter Salles ha avuto l’idea di offrire al mondo un film tratto da On the road (nella sua prima stesura, il rotolo del 1951), il timore mi ha impedito di vederlo, e il trailer ha dato conferma ai miei sospetti: l’idea che se ne ricava è quella di un Dean fighetto e abbandonatutti, spogliato dell’aura immensa al cui riparo Kerouac ce lo aveva mostrato ed esposto al giudizio diretto dello spettatore, strappato via all’immunità che l’autore garantiva al suo furbo e ingenuo peregrinare nella vita e nell’America, molto più simile all’“Adone di Denver” di Ginsberg, che al “santo” di On the road.

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Ho amato, al contrario, Kill Your Darlings – Giovani ribelli (che dal 20 Marzo sarà disponibile in DVD, in versione noleggio).

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New York, 1943. Kerouac, di ritorno dall’Europa, ha da poco lasciato la marina mercantile, con la quale si era imbarcato dopo essere stato congedato dal servizio militare di leva per una diagnosi di personalità schizoide. La sua esperienza per mare gli ha dettato l’ispirazione per il primo romanzo, rimasto incompiuto (e pubblicato nel 2011), Il mare è mio fratello, che già presenta temi e suggestioni che saranno cari al romanziere maturo.
Kerouac ricomincia a frequentare la Columbia, dalla quale si era allontanato dopo aver vista conclusa la propria carriera di campione di football, che gli aveva garantito una borsa di studio presso l’Università, e intraprende una convivenza con Edie Parker, che sarà poi la sua prima moglie, che gli presenta Lucien Carr.
Carr alloggia nel dormitorio della 122^ Strada, residenza supplementare della Columbia, in cui si è appena trasferita la matricola Allen Ginsberg.
La beat generation nasce tra queste mura, tra le strade più sporche di New York, nell’appartamento di David Kammerer, nei locali jazz. Il più maturo William Burroughs ne è il padre spirituale, Lucien Carr, al tempo, ne “era il collante”.
Kill your darlings – Giovani ribelli, esordio alla regia di John Krokidas, fotografa questa nascita. Un Kerouac (J. Huston) un po’ appannato, un tormentato Ginsberg (D. Radcliffe), un fragilissimo Carr (D. deHaan), alla ricerca di una nuova visione.
Lucien, studente sfrontato e amante della provocazione, conosce a memoria i versi proibiti di Henry Miller, legge Rimbaud, trascorre le notti nella conturbante atmosfera del distretto di Chelsea, nel clima bohémien del Greenwich Village, nella New York proibita dei locali notturni. Inseguito dai fantasmi di una omosessualità che rifiuta con disperazione, perseguitato da Kammerer – amante, amico sfruttato e carnefice implacabile, che ad essa lo aveva iniziato – attrae Allen a sé, ad un nuovo stile di vita, alla ricerca di una nuova poetica, alla nuda espressione di sé che è il seme della creatività, lo infatua, lo innamora, ma lo rifiuta con violenta crudezza quando lo spettro di una relazione omosessuale che ha il volto di Allen torna ad affacciarsi nella sua tormentata vita. Nasconde un tentativo di suicidio, giustificato come “forma d’arte”, risalente al periodo trascorso all’Università di Chicago, da cui la famiglia lo ha portato via per sottrarlo alle attenzioni maniacali di Kammerer, che si trasferisce di città in città per seguirlo.
Il giovane Allen Ginsberg osserva Lucien in tutto il tempo narrato, ne subisce il fascino irresistibile, è alla continua ricerca dell’approvazione dell’amico. Kammerer, che fin dal primo momento aveva nutrito per Allen un forte antagonismo, lo avverte di come Lucien sia capace di dimenticare gli amici, di voltar loro le spalle.
Rifiutato da un Lucien spaventato, che ammanta la paura della propria omosessualità col disprezzo feroce per gli invertiti, Allen cade in uno sconforto profondo. Disilluso, umiliato dall’amico amato, si abbandona allo squallore della disperazione e della solitudine.
Quando Lucien tenta di imbarcarsi per la Francia assieme a Kerouac, per fuggire ai propri demoni, all’amato e odiato Allen, a quel Kammerer che da anni gli scriveva il destino, viene da questo rintracciato, con l’ingenua complicità di Allen stesso. Lucien conduce l’uomo al Riverside Park e quello che forse doveva soltanto essere un chiarimento tra i due trova il suo epilogo nell’assassinio di Kammerer, trafitto dal coltellino da boy scout che Lucien possedeva sin dall’infanzia.
Allen è nuovamente sconvolto da Lucien. Burroughs, amico di Kammerer, si allontana. Il gruppo originario è sfaldato, il sogno svanito, tutto sembra andato in frantumi. Ma la beat generation ha bisogno di Ginsberg per continuare il proprio cammino.

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