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Siamo sicuri che a Marco Bellocchio sarà venuto più di un dubbio rispetto all’unanimità di consensi ricevuti al festival di Venezia in occasione della presentazione nel concorso ufficiale del suo “La bella addormentata” ispirato alle vicende di Eluana Englaro ed al tema dell’eutanasia che pochi anni fascosse e divise l’opinione pubblica del nostro paese. La considerazione è lecita se pensiamo all’autobiografia ed alla carriera artistica di un uomo difficilmente catalogabile, avulso dalle parti e per questo considerato scomodo da qualunque schieramento politico ed ideologico. Una diversità che si è riversata sul cinema producendo film memorabili ed anche opere meno considerate perché troppo legate a questioni personali come quella della psicanalisi a cui il regista si sottopose e dalla quale fu così influenzato da promuovere il suo psichiatra a sceneggiatore dei suoi film (il medico Massimo Fagioli per questo fu accusato addirittura di plagio nei confronti del regista). Era il periodo di titoli scandalosi come “Il diavolo in corpo”(1986) oppure altamente criptici come “Il sogno della farfalla” (1994). Comunque la si voglia mettere queste opere erano lo specchio di un’artista che nel raccontare e nel raccontarsi non ha mai smesso di mettersi in gioco e di rischiare in prima persona con polemiche spesso aspre e prese di posizioni anche astiose alle qualiha risposto sempre e solo con la potenza del suo cinema. E’ quindi singolare, per tornare al discorso iniziale il fatto di assistere ad una compattezza di giudizio, dei critici come del pubblico, e tutto sommato alla mancanza di un dibattito acceso intorno alle questioni sollevate dall’ultimo film del regista, che diciamo subito pur elevandosi dalla massa non è il suo film migliore. Nel provare a trovare la ragione di queste affermazioni è necessario prendere in considerazione alcuni aspetti della contemporaneità italiana con cui il film di Bellocchio si deve confrontare: innanzitutto il senso di sfiducia nei confronti dei massimi sistemi (politica e religione in testa) e poi un attesa quasi messianica verso qualcuno o qualcosa capace di colmare la sensazione di smarrimento generale verso una realtà indecifrabile e fraudolenta. E' quindi logico dire che dal punto di vista cinematografico l’epifania del regista piacentino che affronta la dicotomia vita/morte senza fare sconti a nessuno ma riuscendone comunque a ricavare unmessaggio di speranza e d’amore – simbolicamente Bellocchio metterà in corrispondenza la morte di Eluana con il risveglio alla vita di Rossa, la bella addormentata del titolo – era la medicina giusta per curare le ferite, e l'artista un salvatore della patria austero e rigoroso, adatto alla situazione del momento. Se invece ci caliamo in un discorso prettamente tecnico le cose diventano più complesse. Lo sono i temi messi in campo, che infatti si traducono in una storia collettiva con vicende e personaggi che si muovono sullo sfondo dell'italia infuocata dal caso Englaro. Lo diventano le loro azioni mosse da pulsioni ed esperienze che nella contrapposizioni dei punti di vista e nella condivisione di un esperienza che per alcuni è la stessa di quella della famiglia Englaro riescono ad andare oltre la cronaca per mettere in scena il subconscio di una nazione.
Una sfida quella di Bellocchio che si serve di un apparato visuale capace di creare una spazio di mediazione tra narrazione e realtà, in cui l'alternanza dei toni - ora calmo e misurato altre volte frenetico e schizoide - e dello stile- onirico ed iperreale - riesce a bucare l'apparenza per arrivare al cuore del problema. Dalle sequenze d’apertura invase dall’apparato mediatico e dai bollettini d’informazione che rigurgitano la storia in una cronaca da reality show si passa quasi subito ad una dimensione intima e personale in cui anche la presenza del mondo esterno, con le sue date e le sue scadenze rimane sempre un passo indietro rispetto all'elemento umano. Uno scarto che nella differenza tra pubblico e privato appartiene anche ai personaggi il cui ruolo ufficiale è messo in secondo piano, o cessa di esistere rispetto all’urgenza dell’esistenza: è così per il politico che pensa da uomo e non da collega di partito, dell’attrice che ritorna ad essere madre rinunciando alla carriera, della militanza di una figlia che quando si tratta di innamorarsi non si lascia condizionare dalle proprie convinzioni, del dottore che smette di essere tale (la scienza non può fare nulla per chi da deciso di morire) percurare la propria paziente con la medicina dell’amore e della perseveranza. C’è nel film di Bellocchio una sorta di supremazia dell’individuo che va oltre il caso specifico - il diritto di Eluana a rinunciare alla sua condizione vegetativa - ma che si allarga all’intero spettro dell’esistenza. Un ricominciare da se stessi e dai propri affetti, diremo quasi un ritorno alla famiglia presente nell’epilogo di tutte le microstorie di “La bella addormentata”, che è il controaltare all’incapacità di chi ci avrebbe dovuto prendersi cura di noi: la politica innanzitutto, depressa e deprimente nella sequenze da psicodramma che coinvolgono il personaggio di Roberto Herlitzka, uno psicologo che dispensa calmanti ed epitaffi, ed in parte la Chiesa, colta più come apparato di funzioni e liturgie che come dispensatrice di misericordia ed empatia. A ricordarcelo il prete manipolato dall’attricee ridotto a mera presenza istituzionale, e poi le suore che accompagnano le preghiere di suffragio della donna a favore della figlia:svuotate di qualsiasi umanità si muovono a comando con una gestualità meccanica al limite del ridicolo.
E’ da queste considerazioni che nascono immagini come quella di Tony Servillo ripetutamente inglobato all’interno dei maxi schermi in cui Berlusconi, corpo mediatico in maniera similare a quello del Mussolini di “Vincere”, si mangia letteralmente la nostra libertà, oppure nella pietà che si tramuta in una sindone laica con il fazzoletto bianco che nelle mani di Michele Riondino si posa sul volto bagnato di Alba Rohrwacher per asciugarlo dall’acqua e nello stesso tempo, con uno slittamento di senso di cui il cinema di Bellocchio è pieno, per rendere il senso del rapporto che si sta instaurando tra i due personaggi, oppure nella sequenza dell’ospedale in cui l’improvvisa reazione di un uomo che getta per aria le lenzuola degli altri pazienti diventa il presagio di un cambiamento che metterà letteralmente a nudo le vite dei protagonisti. Visioni che non avrebbero bisogno d’altro e che invece nella seconda parte si appesantiscono con un eccesso di parole che in certi momenti risulta persino didascalico, non all’altezza della forma di cui si fregia tutta l’opera. In un film senza scandali a cui nonostante tutto Bellocchio ci aveva da sempre abituato (ma il tempo presente è già di per se scandaloso), e che tutto sommato è abbastanza clemente nei confronti del potere costituito è questo il maggior peccato del regista insieme ad un equilibrio interno che la suddivisione in quattro segmenti narrativi non sempre riesce ad assicurare. Grandi leprove attoriali tra cui ci piace ricordare quella strepitosa di Pier Giorgio Bellocchio nella parte del dottore. La sua maschera di sofferenza e di determinazione meriterebbe sicuramente una menzione.
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