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La biochimica velenosa della NASA

Creato il 03 dicembre 2010 da Gifh
La biochimica velenosa della NASA

Un ingrandimento dei batteri GFAJ-1 coltivati con arsenico. Imagecredit: Wikimedia Commons

Finalmente la NASA ha ammesso di aver raccolto incontestabili prove dell’esistenza di microorganismi alieni terrestri che riescono a metabolizzare anche l’arsenico!
Ecco la notizi(ol)a che avrà deluso intere schiere di esobiologi in erba e non solo. E giù di nuovo a sentenziare inverosimili ipotesi di complotti per occultare le prove e insabbiamenti Roswell-style ad esclusivo impiego di chi frigge la solita aria. Tuttavia la ‘scoperta’ è in ogni caso degna di essere approfondita e va giustamente evidenziata, anche con questi metodi che ne esaltano una certa spettacolarità. In fondo la scienza va divulgata con ogni mezzo possibile, e ben vengano questi metodi che rompono gli schemi usuali del comunicato stampa arido, impersonale e monocorde dedicato ad un pubblico di soli addetti. Ma cosa c’è di veramente nuovo, cosa sfugge allo spettatore medio, cosa si nasconde nelle verità nei dettagli che i media generalisti non ci dicono, o non sanno dirci?

La star in questione, una vecchia conoscenza dei biologi più attenti, meglio noto con la sigla GFAJ-1, è un bacillo estremofilo che quando si trova in un ambiente carente di fosforo, è in grado di metabolizzare anche l’arsenico in sua vece, un elemento chimico altrimenti letale per la maggior parte degli esseri viventi del pianeta.

Avete letto bene, almeno questo è vero per la maggior parte degli organismi, dato che esistono altri curiosi precedenti, come alcune alghe marine, miceti e perfino piccoli invertebrati, che mostrano una chiara panoramica dei modelli di distribuzione di arsenico contenuto, anche se in questo studio del 2002 ad esempio, non è stata riscontrata nessuna funzione biologica fondamentale che lo giustifichi.

La biochimica velenosa della NASA
La riduzione degli arseniati e l’ossidazione degli arseniti da parte dei batteri, è un meccanismo di disintossicazione ben documentato e alcuni procarioti possono sfruttare gli arseniati come accettori terminali di elettroni durante la crescita anaerobica, mentre altri possono utilizzare gli arseniti come donatori di elettroni per generare l’energia di cui abbisognano, come emerge da questo abstract. Nella Shewanella, una famiglia di batteri marini, coesistono ben due meccanismi biologici separati per  la riduzione aerobica e per la riduzione disintossicante degli arseniati, secondo questa ricerca risalente al 2003.

Entrando ancor più nel dettaglio, si scopre che le arsenobetaine rappresentano la principale fonte organica di arsenico che si trova nei pesci, nelle alghe e anche in alcune specie di granchi, un’informazione che disponiamo fin dal 1920, anche se la struttura principale delle molecole venne scoperta solo nel 1977.

Esistono inoltre numerosi composti organici coordinati con atomi di arsenico, fra i quali carboidrati, lipidi, fenoli e chetoni aromatici, addirittura conosciamo una muffa che è in grado di produrre discrete quantità di trimetilarsina se cresce in presenza di arsenico inorganico.

E’ altresì noto che perfino molti esseri umani, soprattutto concentrati nell’Italia centrale, si abbeverano quotidianamente con acqua corrente a contenuto variabile di arsenico, a dispetto di ogni diniego delle deroghe da parte della Comunità Europea, ma stranamente questa è una notizia passata presto nell’indifferenza, in quanto abbiamo problemi più impellenti da sbrogliare, come Wikileak e la salute mentale del premier ad esempio.

Chissà che nel frattempo alcuni individui della nostra specie non riescano ad evolvere un esclusivo metabolismo protettivo nei confronti di questo semimetallo, che li metta così al riparo da quella fastidiosa inibizione allosterica del piruvato che interferisce con la longevità cellulare tipica delle forme di vita a base carbonio?

Abbandonando le digressioni (ma non serve anche a questo un blog?), ritorno al nostro virtuoso esponente delle Halomonadaceae, il GFAJ-1, ritrovato nella fanghiglia del lago Mono, uno specchio d’acqua alcalino che al pHmetro raggiunge un valore prossimo al dieci, dal team di  Felise Wolfe-Simon, scoprendo non solo che essi vivono felicemente in compagnia dell’arsenico, ma questi microorganismi hanno effettivamente adattato la loro biochimica cellulare per surrogarlo al fosforo biologico, fondamentale per un gran numero di processi vitali, primo fra tutti il sistema di trasferimento e immagazzinamento dell’energia delle coppie molecolari ADP-ATP e quelle macromolecolari di NADPH-NADP+.

La biochimica velenosa della NASA
L’arsenico e il fosforo condividono lo stesso gruppo sistematico nella tavola periodica, il quindicesimo, lasciando presagire una certa similitudine nelle loro peculiarità. Fino ad ora però si è pensato che il fosforo nella chimica della vita fosse di gran lunga il favorito tra i due per molteplici e fondati motivi.

Ad un certo punto del loro percorso evolutivo però, questi microorganismi hanno deciso di non disintossicarsi più dall’arsenico che assediava il fosforo organico, sviluppando così un metabolismo alternativo che andava ben oltre il normale trattamento ad esso riservato.

Infatti  in un primo momento si è scoperto che i bacilli riescono a sfruttare indifferentemente entrambi gli elementi per sopravvivere, in sostanza si accontentano di quello che passa il convento!

Fino a qui però, ancora non vediamo quelle novità tanto eclatanti da spingere la NASA a trattare un argomento che sembrerebbe avere poco di sorprendente.

Se non fosse che, con genuino stupore dei ricercatori, sfruttando composti di arsenico tracciabili con radioisotopi, sono riusciti a scoprire che i batteri incorporano l’arsenico all’interno del loro stesso DNA!

E’ davvero difficile sottolineare quanto può essere sconvolgente questa rivelazione, se proponessi qualcosa di simile ad un microbiologo senza alcuna prova a sostegno, potrei facilmente essere tacciato come visionario e difficilmente riuscirei a riabilitare la mia credibilità.

La biochimica velenosa della NASA

Felisa Wolfe-Simon durante le ricerche sul lago Mono. Image Credit: Henry Bortman (NASA)

Questa scoperta significa sostanzialmente che la vita, in qualunque caso, trova sempre un modo per attecchire, indipendentemente dall’ambiente in cui si sviluppa. Anche con un limitato e inusuale cocktail di elementi disponibili per il proprio sostentamento, la possibilità di esistenza di forme di vita nell’universo risulta notevolmente amplificato, tracciando le basi del concetto, a lungo rimasto esclusivo appannaggio della fantascienza, che la vita su altri pianeti può essere basata su una biochimica radicalmente diversa da quella che conosciamo, seminando nuovi spunti per i programmi di ricerca come il SETI.

Non è nemmeno difficile immaginare che la comprensione di questi meccanismi possa fornire ulteriori implicazioni per la biologia, e forse anche per la medicina.

Infine potrebbe anche considerarsi come un monito, un segnale che ci indica di abbracciare più ampie vedute a mente aperta quando si tratta della ricerca di vita su altri pianeti. Se un ceppo di esseri viventi microscopici è davvero così diversamente alieno pur proliferando sotto i nostri occhi, per l’amor del cielo, allora cosa diavolo potremo mai trovare sugli altri pianeti?

Fonti: University of Minnesota, BadAstronomy, NASA, BBC, Wikipedia


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