La biodiversità, lo scambio dei semi, l’identità del territorio.
Da Antoniobruno5
La biodiversità,
lo scambio dei semi,
l’identità del territorio.
Intervista di Luigi Trotta a Flavio Polo,
agricoltore
di Presicce, in provincia di Lecce, proprietario
dell’azienda agricola “Campolisio”.http://www.campolisio.it
[Luigi
Trotta] La chiacchierata di oggi riguarda la tutela delle antiche
varietà di ortaggi nel territorio salentino, anzi in questa parte specifica di
quel territorio, dove ci sono esempi di chi conserva ancora caparbiamente
tradizioni e prodotti a forte rischio di estinzione.
L’obiettivo non è quello
di creare filiere produttive di varietà antiche, ma piuttosto aiutare chi intende
percorrere la strada della biodiversità per ‘ripopolare’ di antiche tradizioni,
conoscenze, prodotti, un territorio agrario tra i più antichi del mondo.
[Flavio
Polo] Il recupero delle vecchie varietà in questa zona nasce dall’opportunità
di poter attingere ad un bagaglio culturale enorme che permette, come ad
esempio per il pomodoro, di ritrovare varietà, la cui coltivazione richiede un
minor impiego di risorse e energie rispetto alle varietà più commerciali.
Si pensi alla cura
delle piante: anche se non stiamo parlando di varietà di pomodoro produttive
come quelle normalmente in commercio, notiamo che queste nostre ‘antiche’
varietà hanno tutta una serie di ‘resistenze’ particolari ai parassiti ed alle
malattie, hanno bisogno di poca concimazione e cure, quasi niente.
È importante anche
recuperare i vecchi gusti e odori. Ormai si è perso quasi del tutto il ricordo
che gli ortaggi, nel nostro clima assolato, sui nostri terreni, conservano
forti profumi e intensi sapori. Molti dicono che la passata della nonna era
davvero buona, e che adesso non riescono a ritrovare più questi sapori, sapendo
che molto di questa ‘perdita’ è dovuto al cambiamento delle varietà coltivate;
non si trova più il ‘pomodoro di Salve’, il pomodoro ‘Leccese’, o ‘di Morciano’,
che hanno caratteristiche organolettiche davvero particolari, sembrano quasi un
altro ortaggio rispetto a quello a cui ormai siamo abituati.
La biodiversità si
intreccia anche con la diversificazione delle attività dell’azienda agricola:
noi facciamo anche agriturismo, i turisti che rientrano a casa non riescono a ‘riprodurre’
il sugo mangiato da noi, con i pomodori freschi che produciamo in azienda, ci è
capitato molte volte sentircelo raccontare.
Non abbiamo una base
scientifica per dimostrare questa differenza, però può essere un punto di
partenza per lavorare con l’obiettivo di dimostrare queste differenze.
Spesso noi agricoltori
ci lamentiamo dei bassi guadagni dal nostro lavoro, ma bisogna cercare in altri
modi la sostenibilità dell’agricoltura quale fonte di reddito, ad esempio non
rivolgendosi al vivaista o alla ditta sementiera di turno, i cui pomodori sono
creati in centri sperimentali, in laboratorio, e sul campo fanno forse poche
sperimentazioni dato che quando li coltiviamo presentano dei limiti.
Noi abbiamo un
territorio enormemente diversificato; abbiamo poco terreno, molto caldo, spesso
siccità. Abbiamo caratteristiche differenti dalle aziende agricole del barese,
ma anche del foggiano; addirittura esistono differenze tra i prodotti agricoli
fatti nelle campagne di Lecce oppure nelle aziende di Cutrofiano; ad esempio,
ci sono una, due, tre settimane di differenza nell’epoca di raccolta, di
semina, perché anche le temperature cambiano a distanza di pochi chilometri. E
le vecchie varietà si sono adattate a tutte queste differenze. Cominciare a ‘fare
il seme’ delle vecchie varietà da soli, riprodurlo e fare un minimo di
selezione tra le piante, come si fa da duemila anni, è il modo per eliminare
alla radice tutti problemi che gli orticoltori
hanno adesso con le
nuove varietà, che li costringono a grandi impieghi di acqua, di
antiparassitari, di concime, di lavorazioni, semplicemente sfruttando l’adattabilità,
la naturale resistenza alle malattie delle varietà che sono state coltivate qui
in molti secoli.
Questo lavoro, però,
esige che chi lo svolga abbia specifiche conoscenze ed esperienza. Io noto, confrontandomi
con le altre persone, che serve recuperare la conoscenza, l’esperienza, noto
che chi si vuole avvicinare a questo tipo di recupero dei semi ha difficoltà ad
applicare le proprie conoscenze.
Voglio dire che prima
si aveva tutto un bagaglio di conoscenze per la moltiplicazione dei semi, cosa
che attualmente molti agricoltori, non facendolo più ormai da tanti anni, e ‘riproponendo’
questa mancanza nelle generazioni successive, hanno perso. Quindi oggi non si
sanno più riprodurre in modo adeguato i pomodori, che è poi il prodotto più
semplice, se poi pensiamo a tutte le vecchie varietà di cavoli, complicatissimi
da riprodurre perché si incrociano, vediamo che il problema è diffuso e
complicato.
[L.t.]
I
semi da dove li recuperate?
[F.P.]
Li stiamo recuperando da altri contadini. Facciamo un minimo di
ricerca storica, cioè chiediamo da dove vengono, chi li aveva, se li aveva il
nonno, il bisnonno, se per caso li hanno persi – perché purtroppo capita che molti
li perdano – e poi li riprendano, non da un altro contadino ma dai negozi che
vendono piantine, quindi manca la certezza della varietà. Per fortuna, il
recupero dei semi era radicato nelle vecchie generazioni, nella generazione di
mia nonna in particolare, pertanto si vanno a trovare tutti i contadini che
hanno 70, 80 anni, alcuni di loro riescono ad andare ancora in campagna e
riescono a conservare e coltivare la loro selezione di semi. Con questo sistema
siamo riusciti a ritrovare il contadino di San Nicola di Lecce
che ci ha fornito i ‘piselli
di San Nicola’, un altro i ‘cucumarazzi’, che voi a Bari chiamate ‘caroselli’,
un altro i ‘mugnoli’. È un lavoro di passaparola, si chiede e si arriva al
recupero dei semi, si fa una vera e propria ricerca in questo campo. Per
fortuna c’è ancora qualcuno che ha messo da parte i semi.
[L.t.]
E
chi li ha, li da’ i semi?
[F.P.]
Si. I contadini sono abituati a darli. La generazione vecchia è
abituata a scambiare i semi, li hanno sempre scambiati, nessuno ha mai
difficoltà a regalarteli. Anche perché non costa niente darli. E poi, il fatto
di scambiarli e di moltiplicarli dà la possibilità di evitare la perdita dei
semi stessi; se io ti cedo il seme, tu l’anno prossimo ne produci in quantità
doppia o tripla, e garantisci un minimo del tuo seme anche a me. Se succede che
a me va male, o a te va male, c’è altra gente che ha questa risorsa genetica,
quindi, il rischio
di perderlo è minore. Ma
accanto alla diffusione bisogna considerare la selezione. Non si è sicuri che
tutti quelli a cui si dà il seme riescano a fare una selezione accurata del prodotto,
cioè in definitiva del seme. Si possono commettere errori, come ad esempio
avere incroci indesiderati, spesso perché non si hanno le conoscenze adeguate
per fare questo tipo di riproduzione da soli. Alcune specie di ortaggi sono più
semplici da questo punto di vista, altre molto più complicate.
Ad esempio con le
brassicacee io sto togliendo tutto, lascio solo una varietà, la gestione della
produzione del seme dei cavoli è davvero difficile.
[L.t.]
Proprio
in riferimento agli incroci, quindi al rischio di modificazioni genetiche, sei
sicuro
di conservare proprio
quella varietà, che quelle caratteristiche si mantengano costanti nel
tempo?
[F.P.]
Da poco abbiamo recuperato il ‘pisello riccio di San Nicola’ che
ci ha dato Bernardi (un agricoltore della zona n.d.r.), sta andando benissimo,
è pieno di frutti; un altro signore di Salve ci ha dato un pisello giallo
locale - che secondo lui è da generazioni del nonno, quindi speriamo che sia un
vero seme antico - che però era vecchio di tre, quattro anni, e quindi su
cinque chili di seme sono uscite 10 piante, ma quasi certamente di quella
varietà.
[L.t.]
Riuscirete
a mantenerla?
[F.P.]
Penso di sì, sono usciti i fiori e hanno fatto già i
baccelli, una pianta almeno. Vanno un po’ a rilento perché la pianta è nata
piccolina, non ha una vigoria forte, però sta andando avanti.
[L.t.]
Sai
che con il PSR (Il Programma di Sviluppo Rurale per la Puglia 2007-2013.
n.d.r.)
stiamo facendo un bando
per progetti integrati per la biodiversità, che facciano la
caratterizzazione
genetica, la conservazione, ma anche la ricerca storica e l’esplorazione nelle
campagne, cioè tutta una
serie di attività che servono per far conoscere molte altre varietà
che oggi esistono sul
territorio pugliese, con l’obiettivo di avere una maggiore conoscenza ed
una idea più precisa di
una strategia che si può realizzare per tutelare le varietà antiche a
rischio di estinzione.
Possono essere coinvolte, oltre i soggetti scientifici, le associazioni
culturali, le diocesi, e
chiunque abbia documentazione antica, ma anche gli agricoltori che
hanno storie da
raccontare. Attraverso questi progetti vogliamo avere una mappatura, la più
precisa e la più vasta
possibile …
[F.P.]
Va bene, siamo d’accordo, ma è giusto anche parlare della
fruizione di questa mappatura da parte degli agricoltori che vogliono,
recuperare, conservare questa biodiversità.
[L.t.]
Questa
cosa potrà avviarsi già subito dopo i progetti, ma soprattutto con la proposta
di
legge regionale sulla
tutela della biodiversità agraria e zootecnica. Quando abbiamo
programmato questi
interventi ci siamo confrontati con la Commissione Europea, per loro la
misura deve avere
esclusive finalità ambientali.
[F.P.]
Certo che ha una valenza ambientale. Abbiamo perso diverse vecchie
varietà negli anni, per accorgerci che con le nuove alla fine il bilancio tra
il dispendio energetico e la produzione è negativo. Questo vuol dire che le
vecchie colture che erano considerate poco produttive avevano bilancio
energetico positivo. È il caso per esempio delle capre joniche, che producono
il latte da niente, mangiando gli sterpi delle campagne al contrario delle
capre Saanen molto esigenti per l’alimentazione, quindi costose da allevare.
Gli animali scomparsi erano funzionali al territorio, al suo equilibrio anche ambientale.
[L.t.]
C’è
anche l’identità del territorio. Ad esempio nel Salento, che sembra in questi
anni al
centro del mondo per l’attrattività
turistica che esercita, la gente che viene si aspetta di
trovare certo il
bellissimo mare, spiagge uniche, ma trova anche sapori, un’identità anche
gastronomica, profumi,
che si mescolano ai paesaggi, alla gente, alle antiche ricette. Che
sono riproducibili solo
con quelle antiche varietà. È questo che li porta a tornare.
[F.P.]
Noi facciamo un piatto, d’estate, con i ‘pomodori di Morciano’, un
pomodoro leggermente incavato che ha la caratteristica di avere la pellicina sottilissima,
quando è cotto la pellicina sparisce e il sugo si presenta come una crema. La
gente che lo mangia ci chiede: “ma cos’è?” Rispondo: “è tutta natura, noi non
facciamo nulla”. Poi vanno al mare, trovano il contadino del posto e comprano i
pomodori ma sono tombolini, rotondi, sono ibridi, ovviamente hanno una
consistenza diversa; fanno il sugo, tornano e ci dicono: “Ma tu non mi hai
detto tutto, perché il sugo non è venuto come il tuo?”.
Ma ultimamente,
soprattutto chi viene fuori stagione cerca di più la cultura, l’interno del
Salento piuttosto che il mare, perché sono più attenti, viaggiatori che hanno
un bagaglio culturale più ampio di chi viene ad agosto e vuole andare solo al
mare. Ma poi, hai ragione, apprezza anche il resto.
Secondo me, partendo
dai semi, bisogna rimpostare un modello di sviluppo agricolo ‘alla nostra
portata’, di noi agricoltori. Con la parcellizzazione dei terreni, con le
nostre aziende piccole non possiamo pretendere di competere per le produzioni
dei grossi volumi e guadagni. Con le aziende di dieci ettari o spesso molto
meno, siamo troppo piccoli, per questo dobbiamo sfruttare a nostro favore
questo che può sembrare un gap. Siamo diversi. ‘Biodiversi’.
Più diversi siamo, più
forti siamo.
[L.t.]
È
verissimo. Oggi quello che conta è avere quello che altri non hanno. Quello che
molti
non hanno è la
straordinaria quantità di biodiversità. Probabilmente la Puglia è tra le
regioni
del bacino del
Mediterraneo, culla dell’agricoltura, quella che ‘custodisce’ il più cospicuo
patrimonio di varietà da
ritrovare, riscoprire, ri-conoscere e nuovamente coltivare, e questo
non ce lo può copiare
nessuno.
[F.P.]
Ti voglio fare un altro esempio, quello della patata. La
riproduzione della patata non andrebbe più fatta a partire dal tubero, come si
fa usualmente, ma a partire dal seme. Le piante di patate nei campi sono dei ‘cloni’,
cioè tutte uguali. Sarebbe davvero interessante poter ricominciare ad avere una
variabilità genetica il più grande possibile e poi selezionare di nuovo il clone
che va bene nei nostri terreni. Si può fare, selezionando quelle due, tre varietà
che sono ancora in commercio in grado di produrre semi, e quindi
fare selezione sul seme
di queste varietà, portando con sè tutto il loro bagaglio genetico…
[L.t.]
Conosci
varietà antiche anche di patate?
[F.P.]
Sì, stiamo lavorando con la Bolivia, con la patata ‘tarantina’. Voglio
specificare questo: andare a riproporre il seme, quella vecchia varietà, è
anche un modo di proporre un sistema diverso di consumo. Ho già detto che noi
agricoltori di qui non possiamo lavorare con la grande distribuzione, perché a
noi non dà alcun beneficio. Io sono dell’idea di impostare un discorso diverso,
nel riproporre il seme come ‘coltura-cultura alternativa’.
Anche il modo di
produrre è alternativo: abbiamo recuperato tre, quattro varietà di pomodori, e
poi fatto una prova prendendo le piantine di pomodoro dal vivaio, per metterle
a confronto con le nostre. Dalle nostre piantine abbiamo raccolto fino ad
ottobre, novembre - l’apparato radicale delle piantine del vivaio era piccolo,
striminzito, e così è rimasto, per cui quelle piante dovevano essere
iper-nutrite, e avrebbero dato l’iper-produzione. Le nostre invece hanno fatto
una produzione più ridotta e scalare nel tempo: cambia completamente il tipo di
gestione. Mi ricordo che si raccoglievano i pomodori, via via si mettevano nel
garage su lettiere di paglia, si facevano maturare, quando si raggiungeva la
quantità si faceva la passata; così facevano tutti. La piccola economia dà la
possibilità di fare le piccole produzioni artigianali, come
la conserva, come i
pomodori essiccati al sole, una tradizione che si è persa.
[L.t.]
Avete
informazioni su antiche varietà di altri ortaggi in questa zona? Avete già
preso
contatto con agricoltori?
Sapete di varietà che si sono perse?
[F.P.]
Non ho più trovato le vecchie varietà di cocomeri, di quelli che noi
chiamiamo caroselli, ‘cucumarazzi’, in dialetto. Mi ricordo – mio nonno era di
Gagliano – che fra Gagliano e Presicce c’era una differenza grossa, Presicce aveva
la ‘scudedda’ che era con la buccia leggermente morbida, non striata.
Invece a Gagliano c’erano
i ‘cocomeri’ che erano tondi, avevano la buccia molto dura e un gusto
completamente diverso. Ed è una varietà che non riesco a trovare più. Veniva un’insalata
davvero particolare.
[L.t.]
Il
sapore? Ti ricordi il colore della buccia?
[F.P.]
Era molto profumato. La buccia era verde chiaro e verde scuro a
strisce. Anche della melanzana amara non ho più notizie. Bisognava lasciarla a
bagno col sale e farla spurgare perché non si poteva mangiare. Quando, però le facevi
fritte, le melanzane, erano la fine del mondo. Adesso no, sono dolci ma
sono spugnose,
immangiabili se le friggi senza impanatura perché assorbono tutto l’olio.
[L.t.]
Mi
hai detto del progetto in Bolivia. Avete frequenti rapporti con l’estero?
[F.P.]
Abbiamo avuto un cuoco dal Giappone che è venuto da noi al Sud per
imparare a fare il pane e la pizza. Per imparare a fare la pizza è andato a
Napoli, per imparare a fare il pane è venuto in Puglia ed è stato anche una
settimana da noi. Quando lui ha scoperto le frise è come impazzito, perché i Giapponesi
non hanno il pane e avere un pane che si conserva per sette, otto mesi e che è
facilmente utilizzabile senza grandi problemi, è una cosa fantastica.
Ci ha scritto che si è
aperto a Kyoto un ristorante e che sta lavorando solo con i prodotti della
Puglia. Un altro cuoco americano ha vinto la borsa di studio alla Columbia
University negli USA con un piatto di pasta fatta in casa e un’erba spontanea
che qui da noi normalmente era data da mangiare agli asini, che in dialetto si
chiama ‘strusciddi’.
[L.t.]
Piante
spontanee, quelle che oggi si chiamano infestanti….
[F.P.]
Sulle piante spontanee da mangiare, voglio dirti che decenni fa le
donne che lavoravano in campagna avevano sempre un coltellino in mano, trovavano
queste piante, le raccoglievano, portandone a casa tre, quattro chili al
giorno. Questa era la base dei piatti che cucinavano sempre, piatti
poverissimi, a costo zero, ma di un sapore straordinario, che oggi sono un
ricordo.
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In conclusione, è importante e urgente per
territori
come il mio recuperare le vecchie tradizioni e
farle
passare come sono, pure in un contesto attuale.
L’azienda agricola, la masseria, erano un piccolo
nucleo polifunzionale dove c’era tutto. I sistemi
dell’iper-confezionato, dell’iper-specializzato,
non più aperti e connessi al territorio, ma
chiusi
e dipendenti dalla distribuzione, hanno fatto
scomparire questo nucleo polifunzionale.
Noi siamo convinti di questo recupero e
percorriamo questa strada, quella di una
battaglia
culturale per riproporre la biodiversità dei
prodotti,
delle tradizioni, delle identità.
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Tratto da: LA BIODIVERSITÀ DELLE COLTURE PUGLIESI a
cura di Luigi Trotta pagg 44 - 51
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