Quello che la Birmania sta vivendo è un momento molto difficile. Dopo le elezioni del 2010 la giunta militare che regge il paese diede segni di apertura verso la democrazia liberale: venne allenta la censura, si permise la creazione di sindacati e, in un’ottica di riconciliazione, furono rilasciati oltre duecento prigionieri politici, tra i quali il premio Nobel Daw Aung San Suu Kyi. La Lega Nazionale per la Democrazia (NLD), il partito di opposizione guidato da Suu Kyi, ha poi dominato le elezioni suppletive del 1 aprile 2012, ottenendo 43 seggi sui 46 disponibili.
I recenti attacchi alla comunita’ musulmana rischiano di diventare un elemento chiave nel processo di trasferimento di poteri dalla giunta militare alla società civile. L’unità nazionale, in un paese dove un terzo della popolazione appartiene a minoranze etniche, potrebbe essere il fattore che incrina l’equilibrio tra la giunta militare e l’opposizione civile, nel contesto di un avvicendamento che in ogni caso non sembra essere possibile in tempi brevi. Nell’ondata di aggressioni alla minoranza musulmana, veri e propri pogrom che hanno causato decine di vittime, da più parti si è denunciata la connivenza di polizia ed esercito. Quella in corso sembrerebbe essere una pericolosa deriva nazionalista del buddismo birmano, che rischia di lacerare il paese.
Nell’origine delle storiche tensioni religiose birmane, forti responsabilità sono attribuibili alle potenze coloniali. Furono infatti gli inglesi a favorire l’emigrazione in Birmania di indiani musulmani, al fine di usarli poi come forza lavoro; nel 1921 su 500 mila musulmani presenti nel paese, ben la metà proveniva dall’India. La situazione degenerò poi negli anni ’30, costellati da una serie di rivolte allo stesso tempo antimusulmane e contro le tasse coloniali. In particolare il gruppo etnico dei Rohingya, di religione musulmana e lingua indo-europea, risulta essere tra le minoranze più discriminate al mondo, al punto da non poter ottenere la cittadinanza birmana a meno che non possano dimostrare di avere antenati presenti in Birmania prima del 1823. Ma che anche nelle violenze odierne siano coinvolte in qualche modo potenze estere è sospetto di molti, tralasciando in ogni caso le accuse che vengono rivolte all’NLD di essere finanziato dagli USA.
Le aree più colpite dai disordini sono quelle che vedono la presenza di forti interessi indiani e cinesi. Ad esempio la città di Sittwe, collegata al Kaladan Multimodal Transit Transport Project, un colossale progetto commerciale firmato tra India e giunta militare birmana, che unirebbe i due paesi sia via terra che via mare. Ma, come detto, anche gli interessi cinesi sono pesantemente coinvolti nelle violenze etniche, soprattutto per quanto riguarda il settore energetico. Il giacimento di Kyaukphyu, infatti, dovrebbe essere il punto di partenza di una serie di condotti destinati a rifornire di energia la provincia cinese dello Yunnan, permettendo così alla Cina di evitare il passaggio dal Mar Cinese Meridionale, sempre più una zona geopoliticamente “calda”. Inoltre Pechino teme che lo scoppio di violenza nella regione birmana di Mandalay possa contagiare lo stesso Yunnan, costituita per il 40% da minoranze etniche non Han.
Fino ad oggi la giunta militare birmana ha potuto ignorare le proteste riguardo alle discriminazione etniche, sollevate più volte da organizzazioni come l’ASEAN, l’ONU o l’Organizzazione per la Cooperazione Islamica, proprio grazie agli investimenti esteri derivanti dal proporsi come “ponte” tra Cina e India; ma dopo i recenti scontri le cose potrebbero cambiare radicalmente. Che le violenze superino i confini birmani è preoccupazione di tutti gli stati della regione, così come sono temute possibili ondate di profughi. Significativo dei possibili problemi causati all’estero dalle violenze birmane è l’arresto, avvenuto in Malesia, di immigrati birmani musulmani accusati dell’omicidio di altri emigrati birmani, ma buddisti. Questione di rilevanza internazionale è anche la possibilità che la minoranza musulmana birmana, alla ricerca di protezione, si leghi a movimenti radicali islamici già presenti nella regione in paesi come Indonesia, Malesia, Tailandia e Filippine; ipotesi finora fortemente contrastata dagli stessi mullah birmani.
Il pericolo enorme che corre la Birmania è che la transizione di poteri si avviti su un processo identitario fortemente nazionalista, dove la continuità della stessa struttura statale si confonda con il protrarsi di violenze a danno delle minoranze del paese. Ed in tutto questo molti altri attori potrebbero avere interesse a pescare nel torbido.
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http://www.hrw.org/news/2013/05/28/burma-revoke-two-child-policy-rohingya
http://www.aljazeera.com/news/asia-pacific/2013/06/20136585912715688.html