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Una bomba-carta visto che si trattava di una lettera. Una lettera senza se e senza ma che è entrata a gamba tesa nella vita del quotidiano di via Solferino, scombinandone schemi, equilibri, rapporti, consuetudini e liturgie. Il Corriere per i giornalisti è come la Fiat per i metalmeccanici, un po' un mondo a parte, ma anche un punto di riferimento. Ecco dunque che la lettera di De Bortoli non può non far riflettere la categoria. Sorvolerei sull'opportunità o meno, dal punto di vista sindacale, di una presa di posizione simile, che sa molto di pistola puntata alla tempia, di mossa per innescare scontri generazionali e minare conquiste (qualcuno li chiama privilegi, ma non mi sembra corretto nei confronti di chi ha lavorato per ottenerli) maturate negli anni. Voglio andare alla sostanza, agli interrogativi che muove alla nostra professione.
"L'industria alla quale apparteniamo - scrive - e la nostra professione stanno cambiando con velocità impressionante. In profondità. Di fronte a rivolgimenti epocali di questa natura, l'insieme degli accordi aziendali e delle prassi che hanno fin qui regolato i nostri rapporti sindacali non ha più senso. Questo ormai anacronistico impianto di regole, pensato nell'era del piombo e nella preistoria della prima repubblica, prima o poi cadrà. Con fragore e conseguenze imprevedibili sulle nostre ignare teste.
Non è più accettabile che parte della redazione non lavori per il web o che si pretenda per questo una speciale remunerazione. (...) Non è più accettabile l'atteggiamento, di sufficienza e sospetto, con cui parte della redazione ha accolto l'affermazione e il successo della web tv. Non è più accettabile, e nemmeno possibile, che l'edizione Ipad non preveda il contributo di alcun giornalista professionista dell'edizione cartacea del Corriere della Sera. Non è più accettabile la riluttanza con la quale si accolgono programmi di formazione alle nuove tecnologie. Non è più accettabile, anzi è preoccupante, il muro che è stato eretto nei confronti del coinvolgimento di giovani colleghi. Non è più accettabile una visione così gretta e corporativa di una professione che ogni giorno fa le pulci, e giustamente, alle inefficienze e alle inadeguatezze di tutto il resto del mondo dell'impresa e del lavoro". Boom...
Insomma il compassato direttore del Corriere sembra aver perso la pazienza, dicendo però una cosa che è davanti agli occhi di tutti: "L'editoria deve cambiare". Già qualcuno, come Giuliano Cazzola (parlamentare Pdl ed economista), si frega le mani perchè la crisi sta abbattendo i privilegi della Casta dei giornalisti (mentre quella dei politici, ahinoi, sembra al riparo delle intemperie), ma il tema non è sindacale (questa è materia per Comitati di redazione), ma culturale.
Il giornalismo deve cambiare non perchè De Bortoli vuole fare il bello e cattivo tempo con i giornalisti del Corriere, ma perchè chi fa il giornalista oggi deve saper essere multimediale, capace, cioè di veicolare la stessa notizia su media diversi, che richiedono tecniche, approcci, contenuti diversificati. Un cambiamento che è il ticket da pagare alla sopravvivenza, ma che fatica a farsi largo in molti colleghi, più proiettati verso il "tiriamo a campare" fino alla pensione che verso l'idea di essere interpreti e protagonisti fino in fondo del cambiamento. Sembra di assistere alle difficoltà che vent'anni fa ebbero molti quando dalla tecnologia a caldo, dalle linotype e dalle macchine da scrivere, si passò al computer e alla tecnologia a freddo per produrre i giornali. Passaggi epocali, ma inevitabili. Che si affrontano con entusiasmo e voglia di essere protagonisti o si subiscono con il fatalismo del condannato a morte. E non serve essere smanettoni, basta essere un po' realisti, basta fare fino in fondo il nostro mestiere: quello di interpretare, capire e conoscere la realtà. De Bortoli lo ha detto ai giornalisti del Corriere, ma la lettera è stata recapitata a ciascuno di noi e al tavolo di confronto auspicato dal direttore del quotidiano di via Solferino dovrebbero sedersi tutti quanti amano questo mestiere. Dovrebbero sedersi anche gli editori, che questo mestiere lo coordinano e lo plasmano in impresa, spogliandosi, magari, del peccato originale di amministrare un gruppo editoriale come una normale fabbrica di saponette, facendo finta che sia la stessa cosa, tagliando solo i costi e non trovando il coraggio di scommetere nel futuro con investimenti innovativi e mortificando le professionalità solo perchè in età di prepensionamento. Insomma, facendo gli editori come - si diceva un tempo - i "padroni delle ferriere". Ma questa, purtroppo, è un'altra storia.
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