La boutique del mistero

Da Aquilanonvedente

In Italia è noto che i racconti e le relative raccolte non godono di molta fortuna: gli editori non le pubblicano perché i lettori non le leggono (o forse i lettori non le leggono perché gli editori non le  pubblicano?).

Io ho una mia teoria in proposito.

Si sa che il racconto ha una struttura più “semplificata” del romanzo: di una cosa parla e non di tante che si intrecciano tra di loro. I personaggi sono sommariamente tratteggiati; le situazioni abbozzate. Nel romanzo invece c’è una trama con un inizio, una fine, relazioni, intrecci, ecc. Il romanzo lascia meno spazio alla fantasia, soprattutto se è di quelli che vogliono descrivere tutto (in teoria non dovrebbe essere così). Il romanzo spiega, analizza, mentre il racconto lascia aperti larghi squarci nella storia.

Questo mi veniva da pensare leggendo (in parte rileggendo)  La boutique del mistero di Dino Buzzati.

Prendiamo per esempio uno dei racconti più famosi: Sette piani.

Dopo un giorno di viaggio in treno, Giuseppe Corte arriva, una mattina di marzo, alla città dove c’era la famosa casa di cura. Aveva un po’ di febbre, ma volle fare ugualmente a piedi la strada fra la stazione e l’ospedale, portandosi la sua valigetta.

Questo è l’incipit del racconto.

Da dove viene il protagonista? Perché arriva solo, non ha famiglia o amici? Quanti anni ha? In quale città è la casa di cura?

Tutte cose che non vengono spiegate. Sappiamo soltanto che la casa di cura ha sette piani, ha una vaga fisionomia d’albergo ed è cinta tutt’attorno da alti alberi.

Giuseppe Corte viene sistemato al settimo piano e, parlando con un’infermiera, viene a sapere della strana caratteristica di quell’ospedale: i malati sono distribuiti nei piani a seconda della loro gravità. Al settimo piano stanno le forme leggerissime; più si scende, più vi sono i gravi, fino ad arrivare al primo piano, dove vi stanno quelli per cui era inutile sperare.

A questo punto inizia la “discesa” di Giuseppe Corte: con scuse banali, spesso senza apparenti motivi legati alla sua malattia e al suo aggravamento, il paziente comincia a scendere i diversi piani. Il clima diventa angosciante, ma il racconto non “devia”, rimane ancorato alla “discesa” del protagonista, che tende a ribellarsi a questa situazione, ma gli vengono a mancare progressivamente le forze. E ci si chiede: ma perché nessuno viene a trovarlo? Di quali affari si occupava al lavoro? E gli altri pazienti cosa dicono?

E Giuseppe Corte scende sempre di più, per curarsi meglio, per motivi burocratici, per sbaglio, ma sempre più in basso si trova, finché arriva al primo piano e le persiane scorrevoli della sua stanza si chiudono inesorabilmente…

Ecco, forse oggi i lettori non hanno più voglia di “riempire” con la loro fantasia le storie dei racconti. Forse non hanno più voglia di passare, nell’arco di pochi minuti, da una nave che solca un mare misterioso seguita da un colombre a una grande villa molto “lovecraftiana” invasa da fetidi topi che ne prendono in ostaggio i proprietari.

Oggi si passa dal tweet di 140 caratteri al romanzo-fiume di 800 pagine. Non c’è la mezza misura. Non c’è più spazio per il racconto, quello che si può leggere in bagno, in auto mentre si aspetta il figlio che esca da scuola, oppure prima di addormentarsi. Quello che racconta un episodio della nostra o dell’altrui vita. Quello che non ha la supponenza di voler spiegare tutto, ma soltanto di aprire uno squarcio su un aspetto della realtà, lasciando ad altri il compito di raccontare il prima e il dopo.

Ahimè… non ci resta che un po’ di musica…



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