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L'isola pianeta e altri settentrioni di Giorgio Manganelli è una raccolta di reportage di viaggio nei mari del nord, scritti per varie testate e pubblicati nell'arco di un ventennio, dal 1971 al 1989. Il famoso Gruppo 63 si era appena sciolto nel 1969 e le varie figure coinvolte, all'avaria nei marosi della neoavanguardia, seguivano ciascuno la propria rotta... e i propri rottami. Perché, a leggere queste meravigliose pagine di Manganelli, edite - come molto altro del poeta milanese - da Adelphi (e con importanti note ai testi di Andrea Cortellessa), si ha difficoltà a identificare la rottura con la tradizione letteraria precedente (cosa che, invece, è molto più agevole con i versi). Ed è difficile proprio comprendere e spiegare in cosa questi letterati volessero distinguersi dalla cultura da cui stabilirono di separarsi. A scorrere le pagine de L'isola pianeta direi che fosse proprio l'idea di lontananza e di separazione a tenere uniti un Arbasino, un Balestrini, un Sanguineti e molti altri. Manganelli, per esempio, mette insieme i suoi bagagli e se ne va, segue un po' la sua bussola e fa molti viaggi più a nord.
È difficile seguirne le tappe e, soprattutto, il periplo. Del resto, non pare che Manganelli abbia qui una missione da compiere o una casa da ritrovare: il poeta porta con sé il suo sguardo e il suo futuro, ma anche i suoi affetti, rimane estatico a guardare questo nord in fuga, queste sterminate solitudini, quest'incomunicabilità assoluta di uomini lontani nel tempo e "tacitosi". Sarà banale dirlo, ovvero che sia proprio io a dirlo, ma l'elemento più strepitoso di questo viaggio è la lingua, la capacità di incidere una realtà con un aggettivo ch'è un singhiozzo improvviso, con una parola che sta lì come un crampo, fortissima, nervosa, irrorata di vita effimera che scema nella scossa successiva.
Ciò ne rende la lettura, a tratti, più difficile: e, certo, non sono i paesaggi incontanimati e impervi ad accogliere il lettore dietro le tracce del poeta. Manganelli non apre davvero questi spazi, li attraversa da una fessura tutta sua, lasciando dietro di sé il desiderio di una visita e il senso di una profonda esclusione. Che l'Islanda sia un'isola di vulcani, abbiamo avuto la prova l'estate scorsa quando un nome impronunciabile come un tabù religioso ha privato molti europei delle vacanze o del promesso ritorno. Ma che possano ancora esistere città morte interamente di lava, che la terra sia abitata solo alla costa con escursioni termiche quasi lunari è una novità per me. E che la Norvegia, la Finlandia, la Danimarca, le isole Faer Øer e perfino la mia Germania possano essere i paesi dipinti di Manganelli, ecco, è come se non ci credessi.
Ogni viaggio, del resto, è un inseguirsi di rotte proprie. Manganelli non si sofferma mai sui viaggi, ma solo sulle sue nordiche mete, ne parla come se non le avesse mai dovute imparare. Lo sforzo linguistico è teso a cogliere questo mondo, non proprio a comprenderlo. Ci risparmia l'esercizio mentale della conoscenza e quello fisico dei tragitti, destinati ad altre vite e ad altre esistenze, ma ci delizia con una lingua metaforica e insieme iperrealista: come per Mozart nelle Nozze di Figaro c'erano solo le note giuste, quelle che ci volevano, così anche ne L'isola pianeta lo scrittore non spreca parole, usa quelle giuste come leva per sollevare il nostro sguardo oltre i confini consueti e puntare, con la sua lucidissima intelligenza, verso un nord centrifugo tutto da inseguire. E, come si impara molto sui confini sempre troppo nebbiosi del nord Europa, ci si appresta facilmente a inseguire questo mondo in dispersione, inquietante e dignitoso cucito insieme da Manganelli.
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