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Le cacce ai tori si realizzarono fino al 1802, quando in Campo Santo Stefano, a causa del panico provocato da un toro imbizzarrito, crollò una gradinata costruita per l'occasione davanti a Palazzo Morosini e ci furono morti e feriti.
La festa era organizzata in modo sapiente e con regole precise da un uomo ricco di spirito oltreché di denaro, che conosceva le leggi e le buone maniere. Sua primaria urgenza era quella di chiedere al parroco di zona il permesso di svolgere la caccia.
Risolti gli aspetti burocratici, si pubblicizzava la data attraverso una sorta di manifesto affisso nel campo. Da quel momento in poi tutti coloro che abitavano o lavoravano in zona si prodigavano per il buon esito della festa. I proprietari dei palazzi prospicienti sul campo affittavano i propri balconi; i commercianti si rifornivano di merci ed erano garantiti buoni affari per tutti i luoghi di mescita del vino.
Gli attori che davano vita alla festa erano per lo più macellai, garzoni di bottega e gondolieri. Costoro sceglievano presso il macello i buoi di più fiero aspetto, tanto da giustificarne il nome di toro a loro dato. Il giorno della festa gli animali erano condotti nel campo; già l'arrivo era motivo di ilarità: scivolavano dalle barche, scappavano o cadevano in acqua.
Ma in cosa consisteva il gioco vero e proprio? I tiratori reggevano lunghe corde legate alle corna del bue per evitare che i cani addestrati azzannassero le orecchie dell'animale. In pratica era un gioco di tira e molla con i cani che aizzavano i buoi.
Questi giochi suscitarono perfino l'interesse di Torquato Tasso. Egli infatti assistette da un caccia ai tori in onore di Enrico III di Francia e nella Gerusalemme Liberata paragona Clorinda, che si sottrae ai cavalieri cristiani, al bue che si sottrae ai cani:
Tal gran tauro talor ne l'ampio agone
se volge il corno ai cani ond'è seguito
s'arretran essi; e s'a fuggir si pone
ciascun ritorna a seguitarlo ardito
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