«Le fotografie con immagini sgradevoli verranno pubblicate solo quando aggiungono informazione». Questo è quando viene riportato, con piccole varianti, sulla stragrande maggioranza dei "manuali di stile" degli organi di stampa internazionali. Si tratta di una preoccupazione, per così dire, moderna. Nel 1928, nello "style-book" del Manchester Guardian (il predecessore di "The Guardian") il termine fotografia non veniva nemmeno menzionato. La cosiddetta età dell'oro del fotogiornalismo sarebbe arrivata solo dopo qualche anni, con Robert Capa, Dorothea Lange, Tony Vaccaro. In realtà, la frase in apertura riportata, non dice assolutamente niente. Per dirla con il Conte di Romanones, "Voi fate le leggi che io faccio il regolamento". Cos'è sgradevole? E cosa non lo è? E lo sgradevole, va misurato con criteri estetici, ideologici, umanitari o religiosi? E quando possiamo asserire che sta aggiungendo informazione? E a cosa starebbe aggiungendo informazione? Al testo? Alla conoscenza media del lettore medio, a proposito della situazione fotografata? Perché? Esiste forse una sola foto al mondo che non può essere descritta con delle parole?
Una frase di sei parole può contenere generalmente più di sei bugie. La foto sopra, The Falling Man di Richard Drew, venne scattata quindici secondi dopo le 9:41 della mattina dell'11 settembre 2001, ora di New York. L'uomo non era caduto, si era lanciato. Però non si era suicidato. Una distinzione sottile, ma importante: il suicida sceglie fra la vita e la morte, l'uomo che cade, nella foto, sceglie fra due tipi di morte. In questo caso, venne giudicata preferibile la morte sull'asfalto a quella per fuoco. Inoltre, l'uomo non fu il solo a compiere tale scelta; altri la fecero insieme a lui, o lo seguirono, qualche secondo dopo. Ma anche: le fiamme non erano un incidente, bensì la conseguenza di un attentato terroristico e l'edificio non era un edificio qualsiasi, ma uno dei simboli del potere finanziario degli Stati Uniti.
Tutto questo, la fotografia non lo spiega, ed il fotografo ignora il nome dell'uomo che cade. Lo ignora nel momento in cui scatta la foto, e continuerà ad ignorarlo anche giorni dopo. Sarà l'editore del Toronto Globe and Mail ad incaricare uno dei suoi giornalisti, Peter Cheney, di scoprirne l'identità. Cheney si rivolge ad uno studio fotografico, per ingrandire e rendere più chiara e definita l'immagine. L'uomo che cade non è un nero, anche se la sua pelle non è chiara, si tratta probabilmente di un latino. Indossa una specie di giacca bianca, tipo quella dei camerieri in alcuni ristoranti. Alla fine, Cheney screma tutti i nomi, e trova un candidato: Norberto Hernández. Si reca ai Queens e parla con Tino e Milagros, i fratelli di Norberto, che confermano: si tratta proprio di lui. Il giornalista poi cerca di parlare con la moglie e con le tre figlie di Norberto, che, però, si rifiutano di farlo. Il cadavere potrebbe essere identificato solo attraverso l'esame del DNA, in quanto ne è rimasto solo un braccio e il tronco. Cheney si presenta al funerale con la foto, ma Jacqueline, la figlia maggiore, afferma «quel pezzo di merda non è mio padre». Ed in realtà, i vestiti non corrispondono: né Norberto, né gli altri suoi colleghi, vestivano quel genere di uniforme il 20 settembre. No, l'uomo che cade sarebbe Jonathan Briley; come spiega l'inchiesta fatta da Tom Junod e pubblicata su Esquire.
In una foto si può mentire, tale e quale come si può mentire in un testo. Ma per funzionare, la bugia fotografica, si appoggia alla sospensione dell'incredulità dello spettatore. Si appoggia alla sua complicità. E questo avviene perché la foto sembra riflettere la realtà, mentre il testo la rappresenta. La foto offre allo spettatore un appiglio (quello della sua propria esperienza della realtà) che il testo invece gli nega. Per smascherare un'immagine bugiarda è sufficiente chiedersi chi o che cosa ci sia due centimetri oltre i suoi margini.
Non sempre un'immagine vale più di mille parole. Sicuramente, però, una buona fotografia giornalistica ha bisogno di assai più di mille parole per poter essere descritta con precisione chirurgica.
Alla fine, il giornalismo è sempre più una scelta morale; del giornalista, ma anche del lettore. Analizzando, uno per uno, tutti i pixel della foto dell'uomo che cade, non si trovano scritte in nessuno di essi parole come terrore, claustrofobia, indignazione, dolore, odio, disperazione, compassione. Tutte queste sensazioni soggiacciono nello spettatore, ed aspettano di affiorare in risposta alo stimolo giusto.
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