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Il titolo di questo pezzo, è volutamente identico ad uno di Politico, in cui vengono elencati diversi episodi in cui l’Amministrazione Obama è stata colta impreparata da eventi in Medio Oriente, che nessuno degli analisti e degli esperti della Casa Bianca aveva previsto.
La rivolta degli Houthi in Yemen, che si è portata dietro il picco raggiunto in questi giorni con l’intervento militare dei Paesi nell’operazione Decisive Storm è soltanto l’ultimo in ordine di tempo. Sullo sfondo il deterioramento dei rapporti con alleati storici, per primo Israele, causa-effetto dell’avvio dei negoziati-mantra con l’Iran per il nucleare, ma anche di una politica ambigua e spesso indecisa.
Dice a Politico Suzanne Maloney, senior fellow alla Brookings Institution: «L’impressione è che siamo davanti a una crisi senza precedenti a memoria recente». «Una dannata caduta libera» l’ha definita James Jeffrey, già ambasciatore in Iraq con Barack Obama e consigliere top sulla sicurezza nazionale con G. W. Bush.
Il guaio, secondo diversi analisti, è che, sebbene la situazione mediorientale sia di per sé imprevedibile, mai lineare, e piena di nodi indistricabili (e non esistono nemmeno troppe soluzioni alessandrine, per lo meno potabili), la politica estera applicata da Obama nella regione, rischia di rendere il caos ancora peggiore. Si chiama “offshore balancing”, strategia che uno dei suoi teorici moderni Francis Fukuyama è tornato in questi giorni a (ri)sostenere come l’unica plausibile su American Interest. Secondo Fukuyama, occorre che gli Stati Uniti si riservino la possibilità di “lavorare” con parti opposte, in differenti momenti: scegliere proxy e alleati, a secondo delle convenienze, ma senza finire mai coinvolti direttamente con azioni sul campo.
In questi giorni stiamo assistendo alla più alta messa in pratica della teoria: in Iraq gli Stati Uniti aiutano con i raid aerei le milizie sciite e l’esercito iracheno, in un’operazione per riprendere Tikrit allo Stato islamico, organizzata e guidata dall’Iran (il capo delle operazioni estere dei Pasdaran, è proprio sul posto a guidare le truppe); in Yemen stanno fornendo sostegno politico, e più pratica intelligence strategica, alla coalizione di paesi arabi che sta attaccando i ribelli Houthi, che sono un’entità sciita (zaidita), sostenuta dall’Iran. Il Foglio le ha definite «Le acrobazie di Obama».
Se da una parte è legittimo il disimpegno, o meglio l’impegno off-shore, dall’altra si crea confusione, disorientamento. Un funzionario della Difesa americana ha confessato al Wall Street Journal che mentre guarda la carta del Medio Oriente e pensa ai vari combattimenti in corso e ai Paesi interessati (più o meno direttamente, c’è sempre il discorso delle guerre proxy), si chiede chi sarà «l’arciduca che sarà assassinato e darà inizio a una grande guerra».
Da qualche giorno sta tornando a girare in internet un’immagine, una specie di infografica ripresa anche dal The Atlantic, rappresentativa delle relazioni tra i principali attori mediorientali (è in foto). È un inestricabile nodo gordiano: ammesso che siano passati i tempi in cui si pensava che l’Alessandro Magno dovesse venire da Washington, il minimo richiesto è di non intrecciare ancora di più la matassa.
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