La camera vuota.

Da Gattolona1964

Era l’uno novembre del 1939, quando nonna Elvira lo perse, forse per sempre. Antonio se ne andò sbattendo la porta molto forte, lei non lo rincorse ma iniziò a piangere e da quel giorno non smise più. Dopo tredici gravidanze, indotte dal marito/padrone, molte delle quali probabilmente non volute, dopo due aborti, un bimbo morto a pochi giorni di vita, Elvira trascorreva i suoi anni, allattando o portando avanti una nuova gravidanza. Non si contavano più le anemie e le frequenti crisi epilettiche, dovute allo stato di salute assai debole. Anche l’ultimogenito, Antonio, ne era affetto e la figlia più piccola, ne aveva sofferto sino alla maggiore età. Un fatto generazionale o le troppo gravidanze? Quel ragazzino che aveva sbattuto forte la porta, se n’era andato via da quella casa che non sentiva più come casa sua. Lo chiamavano forse “il bastardo”i suoi fratelli ed il nuovo marito di Elvira?Quando Antonio divenne anziano raccontava ogni sera ai suoi figli com’era andata, sembrava una favola ma non lo era. In compenso aveva stancato tutti, moglie compresa di quei racconti antichi, tristi e ormai sbiaditi dal tempo. Ma non per lui, li aveva sempre nitidi e ben presenti nella sua mente, così come non aveva scordato un giorno di quei sei anni di interminabile e angosciante guerra. Aveva stancato tutti, in particolare, Maria Bettina che era la più piccola e la più impertinente, non ne poteva di questa triste storia. Un giorno, rovistando nei cassetti, trovò l’album di famiglia, quello con le fotografie in bianco e nero, quelle foto grosse di spessore, ma piccole come dimensioni. Lo guardò, sfogliando le pagine e toccando le fotografie molto incuriosita: un battito di ciglia ed uno scuotersi del suo cuore iniziava a dolerle nel petto, forandola come tanti piccoli aghi di pino. La prima fotografia nella prima pagina dell’album era quella dei nonni paterni: Elvira e Giovanni, il primo marito di lei, proseguendo nel girare le pagine prendeva conoscenza di come era fatta la vecchia casa colonica, quella con la loggia, ella fissava uno ad uno i fratelli e le sorelle di suo padre, osservava i tratti somatici dei nonni, degli altri cugini e anche di quella moglie andata in sposa allo zio Oreste per volere del padre. Un tempo i matrimoni si combinavano, anche se Oreste non amava quella donna dovette accettarla: ma non fu per molto, anni dopo si tolse la vita. Effettivamente era vero: nonna Elvira dimostrava ottant’anni, mentre di anni ne aveva poco più di cinquanta!Tutte quelle depressioni post parto, le immani fatiche nel crescere quella nidiata di figli, tutte quelle energie di sangue e latte, donate ad altre vite, la facevano apparire “vecchia” esteriormente. Tutto sommato, forse anche nel suo intimo si sentiva vecchia e usurata: una giovane donna, troppo vecchia per essere ancora donna e femmina, troppo giovane per aver dato alla luce tutti quei figli. La nonna nella fotografia doveva avere circa l’età che aveva oggi Maria Bettina, però lei guardandosi allo specchio della sua camera da letto, di anni ne dimostrava ancora una quarantina solamente. Pelle di porcellana, non una ruga, espressione ancora da ragazzina viziata, capelli corti sbarazzini, Bettina concluse tra sé e sé che si piaceva ancora e non avrebbe più permesso a nessuno di farle ancora del male. Avevano ragione i suoi genitori, i cugini, la sorella, ma soprattutto suo padre Antonio che andava ripetendole da sempre, in quel suo dialetto parmense, del quale mai aveva perso l’inclinazione, che era la fotocopia di sua madre: bassa, rotonda, fianchi larghi adatti alla procreazione, viso minuto e grazioso. Maria Bettina arrivò all’ultima fotografia, quella di lei all’età di un anno, chiuse l’album, fece un grande sospiro per prendere fiato e lo riaprì dopo pochi secondi. Tralasciando di riguardare più attentamente le prime, andò subito a quella di nonna Elvira. Prese una lente d’ingrandimento, ne studiò l’altezza, il corpo con le sue fattezze, corpo allargatosi a dismisura causa le famose gravidanze. Lo nascondeva sotto a quel grembiulone informe, nero, lungo sino ai piedi, ne aveva guardato e riguardato il viso migliaia di volte. Avevano ragione gli altri, Maria Bettina assomigliava in maniera impressionante a nonna Elvira. Al mattino, dopo che il marito se n’era andato in calesse, vestito come se dovesse andare alla Messa, si sedeva dietro, con il bastone dal pomello d’avorio nelle mani curate, il Borsalino di traverso e, come un Re sul suo trono, andava a controllare che le sue smisurate proprietà terriere, fossero ancora al loro posto, mentre un suo aiutante guidava il calesse. Elvira come ogni mattina, stancamente, trascinandosi le gambe, saliva all’ultimo piano in soffitta, ambiente della casa colonica, che oggi chiameremmo mansarda. Su per quelle scale di cotto, sbeccate negli angoli, con l’odore di stalla appiccicato ai bordi, si trascinava aggrappandosi al corrimano di legno: con una mano reggeva un moccolo di candela e aveva il Santo Rosario attorcigliato al polso, con l’altra stava aggrappata per non cadere, dati i continui giramenti di testa e la pressione molto bassa. Li aveva contati mille volte quei gradini: sapeva a memoria che erano ottantanove. Ottantanove come gli sforzi per arrivare in quel sottotetto di legno buio e spoglio, ottantanove come le lacrime che versava ogni mattina, ottantanove come le preghiere che recitava ogni giorno, per farlo ritornare da lei. Le mancava in maniera spaventosa, non aveva più avuto pace da quando Antonio se n’era andato, forse per sempre, forse per un pezzo di vita, la sua vita, perchè Elvira senza di lui si sentiva persa e sola. Gli altri figli erano tutti grandi, qualcuno già sposato, era lui, che avrebbe voluto vicino ancora, sentirne la presenza e i rumori dei suoi passi quando era in camera da letto. Ma Antonio non abitava più con lei, non pranzava più con lei e gli altri, non facevano più le loro interminabile chiacchierate, racchiusi nel loro mondo, dove nessuno poteva entrare. Il cordone ombelicale, per entrambi non era ancora stato reciso e da parte di Elvira mai lo sarebbe stato. Lo amava a dismisura, a dispetto di chi diceva il contrario, era stato la sua unica ragione di vita, quando lei la vita voleva togliersela per i troppi fallimenti di donna e di madre. Di Antonio era la mamma, degli altri solo la madre. Per lei questa sottile distinzione era fondamentale. Lui aveva dovuto strappare le radici da quei mattoni, era stato costretto dagli eventi ad andare via ,Elvira, sapeva e  conosceva a menadito tutte le domande e le risposte che si era data, almeno secondo il suo punto di vista. Si era chiesta mille volte dove aveva sbagliato e non avrebbe voluto che il suo primo marito morisse di colera, per aver bevuto quell’acqua inquinata. La sua decisione era quella di rimanere da sola, con le figlie e con lui, il maschio tanto amato, diverso dagli altri. O almeno considerato da lei diverso e perciò più bisognoso di amore e di cure, secondo il suo pensiero ed i suoi sentimenti di mammina. Già, perché Elvira non era una madre, o un tramite di carne per procreare figli, era una chioccia prima di tutto, una dolce mammina, sempre pronta ad accogliere il suo pulcino affamato di cure e d’affetto. Si ricordava di quando Antonio le si attaccava al grembiule per farsi notare da lei, mentre lei, indaffarata in cucina per preparare il desco per tutti, gli faceva solo una carezza distratta, scompigliandogli i biondi e già arruffati capelli. Lui, tirava la cordella del grembiule, voleva le sue attenzioni, lei lo incitava con qualche affettuoso scappellotto ad uscire dalla cucina: non aveva tempo per smancerie o altro, doveva lavorare. Come gli mancava ora, quante carezze e baci gli avrebbe voluto dare! Quanto avrebbe voluto che lui le slacciasse il grembiule e lei questa volta, lo avrebbe lasciato fare. Era finalmente arrivata in quel triste e spoglio sottotetto, ansimava per via di tutti quei gradini, e piangeva perché sapeva, che aprendo quella porta scalcinata, dentro non lo avrebbe trovato. Il letto di ferro battuto, con quel materasso duro di crine, ma con le lenzuola di cotone sempre immacolate, non conteneva il ragazzo, non lo vedeva dormire rannicchiato in posizione fetale, la sua preferita. La cameretta era sempre in ordine, linda e profumata di lavanda, chissà! Un giorno da un momento all’altro sarebbe potuto tornare e tutto doveva essere in ordine per lui: non avrebbe mai più dovuto sentirsi indesiderato e non amato, mai più. Elvira, puliva la piccola finestrella con l’inferriata arrugginita, lustrava con la cera d’api, le sedia di paglia mezza rotta, sprimacciava il suo orsetto di lana preferito, baciandolo. Diceva che baciando l’orsetto, sentiva ancora il suo odore, sbatteva il cuscino, cambiandone la federa sempre linda e ricamata con le sue iniziali, Usava il battipanni per il tappeto fatto ai ferri da lei, si chinava con la spazzola bagnata nell’acqua e aceto, per lucidare quel cotto deforme. Lustrava la porta e la maniglia,  toglieva la polvere, rifaceva mille e mille volte il letto…. e poi, come ultimo rituale, si inginocchiava accanto al suo letto per dire un ultima Preghiera. Ed era sempre la stessa: Dio, fa che un giorno possa ritornare da me.

……..affinchè la memoria dei fatti realmente accaduti non vada da me perduta, affinchè io ricordi tutto chiaramente se un giorno non sarò più in grado di farlo. In quel momento chiederò ai miei figli o ai miei nipoti di ricordare per me, leggendomi forte  queste parole. Questspezzato di vite trascorse, di persone che non sono più tra noi, forse agli occhi dei gentili lettori appaiono senza senso alcuno e senza importanza, per me non è cos’. Mi è costato moltissimo scriverla, in termini di lacrime e ricordi intrecciati e ancora troppo nitidi dentro di me, per essere cancellati. Non credo che in certi casi il tempo sia un “BUON MEDICO”. Il tempo passa, non aspetta che tu lo fermi, fa il suo lavoro di logorio e smussamento della vita, è un evento lento ma inesorabile, dovrebbe aiutare ma la mente ed il cuore per ora non dimenticano le origini, le sofferenze di chi, prima di me le ha vissute. E anch’io mi sento come loro, con vuoti nel cuore ancora da colmare. Buona giornata a tutti.



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