Inutili, compiaciuti, settari, snob, autistici, cervellotici, impotenti. In una parola: fumosofi. O meglio sarebbe, etimologicamente, filofumi: amanti di mere dense volute, rifuggenti il ben più doveroso e opportuno arrosto. Più di qualcuno se lo chiede, in preda allo sbigottimento: ma davvero devono esistere ancora i filosofi?
La letteratura, l’arte, la musica, il teatro, lo spettacolo, insomma il resto delle cose inutili, hanno almeno una loro godibile spendibilità edonistica immediata: almeno, come categorie, al peggio sopravvivono traslocando negli immacolati scaffali dell’Autogrill, e in amenità come Amici e Xfactor. Più in generale, puoi incontrare qualche sguardo affettuoso e solidale se dici che hai scritto un romanzo, o che suoni uno strumento musicale, o sei attrice teatrale e, per tutte queste ragioni, fai la fame. Ma filosofia!
A parte fare concorrenza agli psicologi e psicoterapeuti facendo i consulenti filosofici, i filosofi non hanno dove traslocare. Pensare l’alterità senza costruire un centro sociale, il paradigma scientifico senza far fare BUM! a nessuna provetta, il concetto di opera d’arte senza buttare già qualche geniale pennellata, la morte senza studiare nuove medicine, e addirittura pensare la politica senza militare in un partito preciso e la religione senza andare in chiesa, questo è davvero troppo.
I più sottili chiosano: lo concediamo, è edonismo pure questo. Ma solo in quanto espressione di un delirio narcisistico compensatorio: insomma è uno sfrenato e sublimato edonismo da repressi.
Meglio liberarsi, e giocare al Super Mario, a questo punto. Meglio farsi seghe più carnali e meno mentali leggendo Harmony: è più onesto. Cito testualmente da conversazioni, certo al limite del parossistico e col gusto del sarcasmo, ma, al fondo, l’idea era questa.
C’è poco da fare: chi malauguratamente ha ritenuto opportuno, necessario per vocazione, o anche semplicemente fico, iscriversi al Corso di Laurea in Filosofia, non troverà alleati se non in virtù di scaltre reticenze sul proprio curriculum universitario e pronte capacità camaleontiche. D’altronde, di che lamentarsi? Avrà finalmente a disposizione un bel banco di prova per quelle virtù tanto decantate agli immatricolandi studenti, nelle leggendarie giornate dell’Orientamento Universitario: flessibilità, apertura mentale, capacità metamorfica e attitudine all’apprendimento di qualsivoglia contenuto, questi – si dice al diciottenne un po’ punkabbestia, un po’ fumato marxista, un po’ dolente occhialuto – questi sono gli assi nella manica che ti spingeranno nelle braccia del mondo del lavoro pronto a cancellare ogni traccia di quest’imperdonabile debolezza, questa concessione al narcisismo, questo vizietto adolescenziale: una filosofia che rende ciechi.
Per ora, mentre faccio i conti con la mia personale difficoltà camaleontica, prendo nota di molte strane reazioni che hanno luogo non appena salta fuori nel discorso l’antipatica parola ‘filosofia’. Rimbrotti, considerazioni, illuminanti spiegazioni:
“Beh te la sei cercata, vi iscrivete in massa in filosofia…” [in massa?? Lasciando stare il mio ateneo, a Strasburgo nel 2008 c’erano 50 iscritti al primo anno. Ah: era detto da uno studente di giornalismo…].
“Ma quindi proprio ci vuoi andare, a parlare in un contesto non accademico? Ma perché lo fai? Quelli vogliono sentire cose concrete, non ti ascolteranno, qui si parla di politica” [ma è proprio così impossibile o meglio, poco auspicato, pensare di farci uscire dal contesto accademico per andare a dare manforte culturale a una battaglia sociale?].
“Sono stanca, oggi ho lavorato tutto il giorno”
“Lavorato? Ma perché, lavori? Che bello, dai, auguri!”
“Certo, per il libro, intendo…”
“Ah, no che lavori, vuoi dire che sei stata al computer tutto il giorno? …”
[… torna il fantasma di SuperMario]
Pensate sia un caso isolato? Ho sentito la stessa reazione riservata a giornalisti, scrittori, insegnanti di scuola. Ma ho l’impressione che quando ci si lascia andare nei confronti dei filosofi, ci sia una rasserenante certezza in più.
Ora, senza voler arrivare alle affermazioni aristoteliche – perché no, non credo che il pensiero sia la più alta forma di azione, né che, ad esempio, pensare l’altro possa sostituire l’incontro con l’altro – senza voler arrivare a questo, dico, trovo un interessante sintomo dei tempi il non considerare atti etico-politici o atti tout court o il pensare, lo scrivere, l’insegnare a pensare, il formare e l’informare. Non sono atti, non sono “fatti”.
Infine, un’ultima, bizzarra, annotazione: in questo momento, almeno al Sud, ho l’impressione che molte laureate o dottoresse di ricerca in materie umanistiche stiano scoprendo il mondo della didattica dell’italiano agli stranieri. L’esame nazionale da sostenere per una prima qualificazione si chiama DITALS: a parte la laurea, una breve formazione e una più o meno consistente bibliografia, sono richieste almeno 150 ore di insegnamento o di tirocinio. Con ingenuità si potrebbe pensare che la laurea in Filosofia, in quanto laurea umanistica, vada bene per essere ammessi al sostenimento dell’esame. Tuttavia, la laurea non dev’essere semplicemente umanistica, ma ‘specifica’. Beh giusto, dai. Solo che, ‘specifica’ cosa vorrà dire? Lettere, senza dubbio. Mmh, anche Lingue. E guarda, anche Pedagogia (…). Infine, l’ultima: il DAMS. Eh no, Filosofia no. Ma il DAMS, sì.