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La Carità(6 gennaio 1956)Don Divo BarsottiDobbiamo spogli...

Da Eleonoraely
La Carità(6 gennaio 1956)Don Divo BarsottiDobbiamo spogli...
La Carità(6 gennaio 1956)Don Divo Barsotti
La Carità(6 gennaio 1956)Don Divo BarsottiDobbiamo spogli...

Dobbiamo spogliarci di ogni egoismo. Non sta a noi il giudicare, non sta a noi allontanare, creare delle barriere. Dobbiamo essere aperti, non avere porte chiuse per nessuno.
Dobbiamo sentire il peso, il dolore, la pena di tutti. Avvertire anche i loro peccati, il peso della loro miseria morale, per assumerne la responsabilità noi, per risponderne noi. Io devo sentire tutto questo. È una cosa molto importante perché altrimenti mi chiudo in me stesso, e questa è la morte della carità. Non basta trovarsi bene con chi si conosce e con cui si possono fare bei discorsi, no. Occorre essere spezzati, rovinati dalla carità divina; rompere tutti i limiti, sapersi superare continuamente nelle chiusure proprie dell'egoismo umano. Dall'egoismo in cui ci si restringe uno per uno si passa all'egoismo famigliare, all'egoismo di comunità, senza andare oltre. La Chiesa, invece, è aperta. Dobbiamo imparare a vivere pienamente questo respiro cattolico, che è proprio del cristiano, per vivere pienamente la vita della Chiesa che è vita di estrema carità, di una carità che non conosce confini, difese, chiusure.
Quanti sono i cristiani cattolici? Non sono quelli scritti nei registri dei battezzati, affatto! Anime che sono nel buddismo, nel confucianesimo... sono nella Chiesa, sono nostri fratelli. Perché? Perché un'anima di buona volontà vive in grazia! Non sappiamo attraverso quali vie misteriose la grazia giunga ad ogni anima, ma sappiamo che nessuna anima vive in peccato mortale, e perciò separata dalla Chiesa, senza sua colpa.
Quanti sono dunque quelli che appartengono alla Chiesa? a questa Chiesa invisibile che a noi non appare, certo, perché oggi viviamo nel mistero la vita cristiana, ma che è reale. Quanti sono che appartengono alla Chiesa invisibile?

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Il dividerci da uno che precisamente è nel cuore della Chiesa vuol dire escludere noi dalla Chiesa; non vuol dire allontanare lui dalla Chiesa, vuol dire uscire noi dalla Chiesa, se quello vive nella Chiesa. Noi possiamo giudicare il lato oggettivo, ma non la responsabilità soggettiva di un'anima.


La comunità è il mezzo per vivere precisamente questa comunione infinita di amore. Bisogna che io viva, realmente, la vita di ognuno; che la senta veramente vivere in me. Appartenere ad una comunità vuol dire acquistare una capacità nuova di amore. Ecco: una grande capacità nuova di amore. E sono escluso dalla comunità se non vivo veramente questa pienezza di amore onde tutti abbraccio, se non vivo veramente la vita di ognuno come mia vita, mio corpo, mia anima, mio sangue, mio peccato e mia grazia.

 Io devo essere contento, come se fosse fatto a me, di quelle grazie che il Signore fa ad ognuno; e devo anche sentire tutto il peso dei peccati di ognuno, assumerli e risponderne: rispondere con la mia sofferenza, con la mia angoscia, con tutto quello che può redimere in qualche modo il peccato e l'infedeltà di qualcuno. 


E quello che è più importante è questo: è facile volersi bene quando si sta insieme e ci si trova d'accordo, ma è un po' più difficile questa misura sempre più grande di carità che dobbiamo avere anche per gli altri che a noi sono sconosciuti, che ci sono sinceramente antipatici. Bisogna aprirci, spogliarci, spezzarci, romperci perché la nostra anima acquisti una capacità sempre maggiore di abbracciare, di includere, assumere, inserire in sé gli altri con le loro pene, angosce, tormenti.


Non possiamo disinteressarci di nulla. La carità ha questo di particolare: che si vuole occupare di quello di cui nessuno intende occuparsi; occuparsi un po' di tutto, non ritenere nulla estraneo a sé. È così che si deve vivere nella comunità. Se si esclude qualcuno, non apparteniamo più alla comunità. 


Il nostro deve essere un impegno ad amare. L'egoismo è un difetto di cui non ci si spoglia mai finché non siamo dei santi. Finché non si è giunti alla santità, questo pericolo sempre insiste, è sempre presente; dobbiamo fare i conti con questo pericolo, dobbiamo mantenerci sempre in uno stato di attenzione. 


Troppo spesso siamo contenti di noi stessi. Crediamo di possedere Dio e probabilmente non possediamo che un mucchio di foglie secche! Ma le anime che sono sempre alla ricerca probabilmente Lo troveranno: anime disgraziate di lontani da Dio, almeno apparentemente. Chissà che proprio per queste anime non sia voluta la nostra testimonianza... Che trovino quello che cercano...


Non per nulla il Signore impegna qualcuno in una consacrazione religiosa, che importa una donazione totale della persona a Lui. Questa donazione totale rende ognuno strumento della volontà divina, che è una volontà onnipotente, che è una volontà di amore. 

Chi vive veramente questa consacrazione religiosa non è più un poveruomo, una povera creatura, perché se io non ho più una volontà, è la volontà di Dio che mi manovra, e io divento strumento della grazia. Non posso pensare alla mia impotenza, incapacità, debolezza, imperfezione: questi limiti ci sono in me, indubbiamente, ma non possono essere più un ostacolo alla grazia che vive in me se io veramente mi spoglio di ogni egoismo per mettermi nelle mani di Dio.


Nulla può essere di impedimento all'amore. Anzi, le miserie degli altri e la lontananza degli altri debbono esigere da me una misura più colma di carità. Non possono essere mai un pretesto, una ragione per il mio allontanamento da loro. Queste miserie apparenti (perché realmente non sappiamo come stanno le cose) devono essere invece per noi motivo di maggiore carità.


Il voto di povertà non consiste nel dare i propri vestiti e le proprie ricchezze: per chi non possiede nulla, è molto facile fare il voto di povertà! La cosa importante è questa: spogliarsi di tutto in modo da dare a Dio tutto ciò che si ha. Anche i figli - e questo è un capitale più prezioso dei soldi, e dello stesso corpo. E poi tutti gli affetti, la stima che si gode, tutto ciò che si ha. 


Non abbiamo mai la pretesa di conquistare: dobbiamo donarci agli altri, non conquistarli. Il senso della conquista dipende sempre da un certo egoismo. Non è mai l'idea della conquista che ci deve muovere, ma sempre il bisogno di servire. 


Tutti i casi che Dio ci fa incontrare, non ce li fa incontrare così per nulla: è perché noi ne assumiamo veramente il peso. Se ci si sottraesse, si diventerebbe un ostacolo per la propria vita spirituale. Si crede di essere già santi e invece praticamente ci si ritrova a essere diminuiti anche nella nostra carità.


Dio ne guardi se non riusciamo a trasformare ogni rapporto umano in un rapporto interiore di grazia, di amore. È questo il compito nostro. Non posso avere con gli altri soltanto dei contatti di educazione: un atteggiamento così non è più cristiano. E questo non riguarda soltanto il mio rapporto coi poveri, con gli umili, ma anche con i grandi! Mai però il senso della servilità, no, perché anche questo è un piano umano. Soltanto il piano dell'amore! Certo, è un fatto che quando ci apriamo si trovano aperti gli altri. Mi pare che il difetto sta più nella nostra chiusura che nelle difficoltà poste dagli altri.


Non possiamo riservare soltanto a noi le nostre pene e anche le nostre amicizie, i nostri affetti e anche i nostri dolori. Non dovrebbe esserci nulla di privato, di nostro, che non sia anche degli altri. 

È certo che se troviamo ancora una certa difficoltà a far questo, non siamo capaci di aprirci all'amore per gli altri, e dobbiamo superare ancora tante chiusure, tante difese.

Essere cristiani non è soltanto un impegno ad ascoltare delle prediche o a dire certe preghiere: è un impegno di carità fraterna prima ancora di essere un impegno di recita di alcune preghiere, perché la nostra unione con Dio non si realizza con la recita di alcune preghiere, ma nella carità.


U.S.F.P.V.
© Divo Barsotti

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