Da qualche anno, messa da parte l’idea di colonizzare lo spazio in tempi brevi, la specie umana sembra avviata verso una rigorosa distopia culturale.
Inevitabile, dopo l’industrializzazione applicata allo sterminio di massa, nel Novecento, che la fase successiva sia la dissociazione da sé, verso una coscienza artificiale, per i più ambiziosi, desiderosi di soppiantare la loro forma organica in circuiti di silicio sui quali copiare la propria anima, e verso una personalità così unica da essere quasi divina, nella quale annientarsi, invece, per i più semplici, per quelli che ritengono di non essere niente di speciale, e che quindi sia cosa migliore perdersi dietro qualcun altro che, al contrario di essi, c’è riuscito: le celebrità.
I siti di feticismo: parti del corpo, pelle, dettagli come nei o cicatrici, tatuaggi. In alcune zone del mondo, su alcuni mercati, oggetti appartenuti a una celebrità raddoppiano il proprio valore.
Pura trascendenza che, un tempo, si manifestava verso il divino, verso l’idea astratta di Dio e che ora, in mancanza di Dio, o di un suo succedaneo ritenuto all’altezza, che dia prova inconfutabile di sé, cerca necessaria e inevitabile soddisfazione in forme di divinità artificiali, perché studiate a tavolino. Ovvero le star.
Un paio di scarpe di Amber Heard (o Sarah Gadon, nel film). O un paio di slip. Oppure, ancora, una fiala contenente un virus da lei contratto: una semplice influenza, o un’herpes, o un virus intestinale.
Crediamo davvero di essere così superiori e al sicuro da guardare all’eventualità tracciata da Brandon Cronenberg in Antiviral (2012) e liquidarla come una sciocchezza?
No.
Non quando esistono distributori di biancheria usata, con tanto di foto della proprietaria, in vendita a pochi spiccioli. Per chi ha l’attitudine…
Quindi, la nostra distopia è il nostro costume, un’evoluzione delle abitudini sociali che accetta l’ossessione, santifica l’isteria di massa nei confronti delle celebrità e, sempre, viene tradotta in profitto per pochi scaltri e fortunati che su di essa, su quella isteria, pongono divieti e condizioni di vendita: ovvero, ne fanno profitto.
La massa, be’, quella è sempre esistita e esisterà sempre. È composta dalla maggioranza che va in estasi per l’ultimo tweet del calciatore di turno. Non ha una personalità propria, ma vuole comunque brillare di luce riflessa. Lo esige.
E allora, iniettarsi l’herpes certificata di una bellissima attrice equivale a ottenere una sua risposta esclusiva sul social network. Un tweet in risposta, magari dedicato.
Ma si va oltre.
Il cannibalismo è, nelle antiche culture, un modo per assorbire l’energia vitale, o l’anima o i talenti o la forza, di colui del quale ci cibiamo (ci sarebbe anche un dio che nutrendo di sé i propri fedeli li eleva). L’idea di rivendere, sotto forma di bistecche composte di cellule coltivate in laboratorio, quarti di celebrità equivale ad assorbirne, in un certo senso, la gloria che noi stessi, in quanto cultura, attribuiamo loro. I principi nutritivi, a un certo punto, diventano assolutamente secondari.
Il futuro è quindi asettico, bianco e rosso, la seconda tonalità fornita da sangue sempre più puro. Perché il problema principale di questa nostra evoluzione è la convivenza di stile raffinato, portato a confronto con la nostra natura impura di esseri organici e poco ambiziosi, affamati, in senso letterale, di meraviglia.
Divino
[di-vì-no] n.m.
f. -a; pl.m. -i, f. -e1. di un dio, degli dei; che riguarda, che proviene da divinità: bontà, misericordia divina; la divina provvidenza; per grazia divina; castigo, perdono divino |la divina scrittura, la Bibbia
2. eccellente, perfetto, sovrumano: bellezza divina |il divino poeta, per antonomasia, Dante | (fam.) bellissimo, buonissimo: un abito divino; una cena divina
3. (lett.) profetico, indovino: e che la mente nostra, peregrina / … / a le sue vision quasi è divina (DANTE Purg. IX, 16-18)
Culto della personalità (altrui) che sfocia in un profondo individualismo, pur scevro da ambizione. Dopotutto, le grandi idee e i grandi movimenti hanno fatto i loro danni. Meglio pensare in piccolo, da esseri egoisti, ricavarsi il proprio spazietto, in un rapporto univoco, così come appare in internet, tra il fan e la celebrità idolatrata (insieme a milioni di altri simili).
Persino peggiore appare, nel quadro di una distopia socialmente accettabile e chic, l’ipotesi contenuta in Antiviral di un’estensione del copyright a campi dell’esistenza finora ritenuti inviolabili solo perché non si era immaginato di poterli privatizzare: i virus, le malattie, le cellule stesse che costituiscono la nostra esistenza.
Non è tanto il profetizzato codice a barre tatuato sulla nuca, è qualcosa di profondamente diverso, ancora più terribile: è la mercificazione portata all’estremo, svuotata da condizionamenti morali.
È l’idea che, fino a quando una cosa è legale, allora deve essere perseguita a ogni costo, finanche quello di proteggere, tramite sistemi antipirateria, l’esclusività di un virus mortale che ha ucciso una star, per garantire a chiunque voglia, scientemente, condividerne la sorte, medesima sensazione, medesima esperienza.
Siamo al di là della simonia, sprofondati in un plusvalore che smuove l’economia della nostra specie su basi assolutamente arbitrarie, ipotizzate, forse, solo e soltanto (come accade anche oggi, d’altronde) sulla popolarità.
La popolarità, il metro del valore odierno.
Uno sconosciuto fa una scoreggia diffusa via twitter. Viene ignorato.
Una celebrità fa una scoreggia diffusa via twitter. Viene ritwittato decine di migliaia di volte.
Inutile stare a stabilire quale delle due vale di più: è palese. Peggio ancora: è logico.
Ed è anche tragico, dato che non occorre disciplina né particolare fatica per ottenere tutto questo, solo, per l’appunto, un esercizio arbitrario di volontà. Gratuito, assoluto, che crea nuovi e convinti adepti ogni giorno.
Se una cosa è seguita da milioni di persone, allora dev’essere giusta, no?
Dicevano la stessa cosa dei totalitarismi d’inizio Novecento, per fare un paragone immediato.
Il vero futuro della specie umana, ora più che mai ancorata a questa piccola roccia, chiusa in se stessa come un microcosmo destinato al collasso, è l’annientamento delle personalità, raccolte attorno a pochi individui che splendono più degli altri, dei quali cibarci. Pochi eletti che, nel frattempo, attraverso la clonazione infinita delle proprie cellule, avranno raggiunto la tanto agognata immortalità, assurgendo allo status divino in tutto e per tutto.
Una storia che ricorda la religione.
O forse è la religione stessa ad aver avuto bisogno di evolvere.