A cura di Joan Leo
Il calcio italiano degli anni’20, ne abbiamo parlato, era scosso da violenti polemiche e duri scontri al proprio interno che fomentavano la già di suo inquieta folla che sempre più seguiva, discuteva e si appassionava alle vicende calcistiche. A ciò si accompagnava una grave crisi finanziaria e di “potere” che attanagliava gli enti del calcio dell’epoca. Quel che accadde nel 1926 offrì il pretesto al regime per rafforzare in maniera decisiva la sua presenza e la sua influenza all’interno delle strutture calcistiche.
Tutto prese avvio dalla proclamazione di uno sciopero della classe arbitrale nel maggio di quel 1926.
Già da alcuni anni una commissione di “saggi” stava lavorando per una strutturale riforma del calcio e proprio nella primavera del’26 statuì per il Regolamento arbitrale una bizzarra norma che prevedeva la possibilità per le società di indicare un certo numero di arbitri “non graditi”, i quali per tutta la stagione non avrebbero arbitrato quelle squadre. L’Annuario del Giuoco del Calcio italiano nell’edizione del 1929 riporta per intero il testo della norma, prevista all’art.11 del Regolamento degli Arbitri:
“Ogni società, entro 10 giorni dal ricevimento dell’elenco degli arbitri, avrà diritto di indicare alla Commissione sportiva (federale) un numero di arbitri non superiore all’8% del totale contenuto nell’elenco stesso. La Commissione stessa per tutta la stagione sportiva iniziantesi, non dovrà destinare tali arbitri alla direzione delle partite che la società che li ha indicati dovrà disputare sia sul proprio campo sia su campo avversario.
Le Società non sono tenute a dichiarare i motivi della indicazione salvo si tratti di casi di indegnità”
Ovviamente questa norma non venne accolta bene dal mondo arbitrale e al termine di una riunione tra tutti gli arbitri, il 30 maggio 1926 l’Associazione degli Arbitri emanò un durissimo comunicato:
“Il Consiglio plenario dell’Associazione Italiana degli Arbitri, riunito ieri a Milano, presa in esame la situazione creatasi in seguito alle ultime decisioni degli Enti Federali (…) delibera alla unanimità di invitare i colleghi di tutte le categorie a ritornare alla Commissione sportiva entro il giorno 5 giugno 1926 la tessera di arbitro, spontaneamente rinunciando ad assolvere l’ufficio, che non è più tutelato da leggi scritte, ma è abbandonato all’arbitrio di parte”
Per farla breve, sciopero.
Insomma c’era il concreto rischio che il campionato non vedesse la fine perchè ovviamente non si poteva giocare senza arbitro, ma fu qui che intervenne in maniera decisa il regime. Per trovare una soluzione venne investito della questione il C.O.N.I. – ente controllato dal regime – il cui presidente già dal 1925 era Lando Ferretti, nominato direttamente da Mussolini. Ferretti ci mise molto poco ad intervenire: ordinò l’immediata cessazione dello sciopero arbitrale e la ripresa del campionato e il 7 luglio nominò una commissione di tre saggi (Mauro, Foschi, Graziani) con il compito di riformare radicalmente l’organizzazione calcistica italiana. Nello specifico ai tre esperti venne demandata la soluzione alle seguenti questioni:
a) Assegnazione delle Società alle varie categorie e organizzazione dei campionati;
b) Classifica dei giocatori;
c) Sistemazione tributaria;
d) Gerarchie dell’ente
Da quella commissione, nel giro di sole tre settimane, venne emanata e sottoposta all’approvazione del C.O.N.I. il 2 agosto 1926 la cosiddetta “Carta di Viareggio” che modificava in senso sostanziale tutta l’attività calcistica italiana.
Così La Stampa del 3 agosto riportava la notizia:
“In una sala del Municipio di Viareggio si è riunita questa mattina e nel pomeriggio di oggi la presidenza del C.O.N.I. per la sistemazione della Federazione Italiana del Giuoco del Calcio. (…) dopo un breve rendiconto finanziario, i convenuti hanno ricevuto una Commissione delle Società di Prima Divisione escluse dalla Divisione Nazionale. Nel pomeriggio, poi, ha avuto luogo un’ampia discussione alla quale hanno preso parte quasi tutti gli intervenuti, e che si è conclusa con l’accettazione delle proposte degli esperti. I punti fondamentali della riforma dell’Ente calcistico stabiliscono tra l’altro che i giuocatori vengano divisi in due categorie: dilettanti e non dilettanti.
Alle Società iscritte al Campionato italiano è fatto divieto di allineare nei propri ranghi giuocatori di nazionalità straniera: come norma transitoria è ammesso per gli anni 1926-27 il tesseramento di due giuocatori da parte di ciascuna Società, con l’obbligo però di non farne partecipare più di 1 per ciascuna partita. Sono stati poi presi provvedimenti circa il trasferimento dei giocatori e si è fissata la data di inizio Campionato italiano, che verrà diviso in due gruppi.
Si è proceduto infine alla costituzione di un Comitato Tecnico arbitrale, con sede a Milano”
Cambiava un po’ tutto, quindi. Soprattutto per quel che riguardava la struttura interna federale che veniva riorganizzata in senso strettamente gerarchico e le cariche stesse che non erano più elettive bensì a nomina: veniva istituito un Direttorio Federale composto da 7 elementi tutti eletti direttamente dal C.O.N.I. – e dunque dal Partito – a capo del quale veniva nominato il gerarca fascista bolognese Leandro Arpinati; a sua volta il Direttorio Federale avrebbe nominato tutti gli organi dipendenti, e cioè il Direttorio delle divisioni superiori (Divisione Nazionale e Prima Divisione) e il Direttorio delle divisioni inferiori Nord e Sud (Seconda Divisione Nord, Seconda Divisione Sud, finali interregionali e Terza Divisione).
Inoltre la riforma seguiva la via tracciata anni prima dal Progetto di riforma dei campionati ideata da Vittorio Pozzo, teso all’unificazione territoriale del campionato: venne dunque creata una Divisione Nazionale formata da 20 squadre divise in due gironi, di queste ben 16 appartenevano alla Lega Nord alle quali si aggiunse una diciassettesima individuata tramite torneo di spareggio tra le otto retrocesse nell’anno precedente; completavano il quadro due squadre del sud e d’ufficio la romana Fortitudo. Era un ulteriore e decisivo passo verso il Girone Unico del 1929/30.
Ultimo aspetto, non certo il meno importante, riguardava il nuovo “status” del calciatore. La Carta di Viareggio recepiva quanto già statuito dalla F.I.F.A. nel congresso di Roma del 1926 laddove la Federazione internazionale, pur continuando a proclamare il principio del dilettantismo per i calciatori, di fatto lasciava alle singole federazioni nazionali il compito di inquadrare concretamente il calciatore e quindi – in altre parole – dava loro la possibilità di prevedere un “compenso” per i giocatori. Ovviamente quel “compenso” non poteva essere in alcun modo un compenso diretto, ossia elargito in relazione ad una prestazione di gioco, ma poteva benissimo essere inteso nel senso di “risarcimento” per il “mancato guadagno” che il calciatore avrebbe subito a causa dell’attività calcistica. Caro Frankie, capirai bene che si è al cospetto di un capolavoro linguistico…
Dicevamo, la Carta di Viareggio si adeguò e, pur non riconoscendo il professionismo, distinse i calciatori in Dilettanti e Non Dilettanti, prevedendo per questi ultimi l’obbligo di depositare in Federazione “copia degli impegni di rimborso spese e mancato guadagno, firmata dal rappresentante della Società e dal giocatore”.
Eravamo dunque ormai ad un passo dal professionismo alla luce del sole, dichiarato, accettato.