di Giorgio Galli
La casa arancione al numero 3 di Via Regina Margherita era di proprietà della banca. Un’estate, avrò avuto cinque anni, mio padre mi portava al mare in bicicletta, e passavamo sotto il ponte della ferrovia, un buco di sottopassaggio dove per entrare dovevi abbassare la testa. Ogni volta infatti mio padre mi ordinava: “Bbasse la cocce” – che in dialetto vuol dire appunto: “Abbassa la testa“. Nella mia memoria quel ponte s’è impresso come “il ponte di ‘bbasse la cocce“. Il nome vero non l’ho mai saputo.
da Wikipedia (autore: Vesahjr)
Subito fuori dal sottopassaggio, appariva la casa arancione. Per un bambino delle case popolari era la residenza del Re, era Montecitorio, era il Colle. La chiamavano “la casa dei ricchi” perché era abitata da bancari. I bancari li odiavano tutti. In dialetto, li si chiamava addirittura “i banchieri“, per dire la gente ricca, quelli coi soldi. Ancora all’università, mi scappava di chiamare banchieri gl’impiegati di banca, suscitando l’ilarità in chi mi ascoltava.
Col tempo molti banchieri avevano rilevato gli appartamenti. Ai miei diciott’anni, la banca era proprietaria di due soli locali. Lo sapevo perché la mia ragazza abitava in uno dei due. A cinque anni, non immaginavo che un giorno sarei entrato nella “casa dei ricchi”. Ci entrai a diciotto, e non solo nell’appartamento di Giada, ma nel garage, e in cantina, nei luoghi dove i genitori non venivano e noi potevamo far l’amore. La prima volta fu nel garage, in mezzo alla fuliggine. Giada indossava un vestito azzurro, che la passione tolse e la fuliggine sporcò. Non mi ha mai detto cos’ha raccontato ai genitori al ritorno.
Amava tutto ciò ch’era francese, Giada. Amava Boris Vian. Le lessi tutte le poesie di Non vorrei crepare nel garage. In cantina leggevamo ad alta voce, un capitolo a testa, La schiuma dei giorni, mentre fuori il gennaio del ’98 fischiava un vento ghiaccio. Mi regalò un CD di Jacques Brel. La mia gatta, Nuvola, impazziva quando mettevo La chanson de Jacky. Rimaneva ipnotizzata, o si metteva a giocare come se l’energia di Brel la incoraggiasse. Giada fu la mia sprovincializzazione, in quella provincia asfittica come una somma di province. Ma era fatta per andare altrove. Ora insegna semiotica a Parigi. Ha scritto anche dei libri, mica poco. Ho ascoltato in streaming una sua conferenza su Radio Radicale. Dopo Giada conobbi Cristina. Lei adesso lavora nella moda a Milano. L’ho scoperto su Facebook. Io invece faccio il disoccupato. Ma questo non si scopre da Facebook, perché “apparentemente” faccio il giornalista. Però, perché il mio possa essere definito un lavoro, manca un requisito: lo stipendio. Non ci ho saputo fare. È colpa mia. Giada insegna semiotica a Parigi. E Cristina lavora nella moda a Milano. Mica poco. Loro sono andate avanti e io sono rimasto indietro. Sono tornato tra i fumi della mia provincia asfittica come una somma di province. Per chi ha paura, la provincia è un riparo: te ne stai dietro la cortina del fumo, e nessuno ti cerca. Come in quelle epoche torbide, quando tutti si nascondono dietro la cortina del malcostume, e si diffonde un rassicurante sentimento d’impunità.
All’università odiavo i ragazzi che non andavano a mensa e, se ci andavano, lo facevano con una busta piena di vestiti firmati appena presi. Si vestivano come pagliacci, gli accostamenti di colori non avevano alcun senso, l’unica cosa che contava per loro era mettere in mostra le marche. C’erano più marche addosso a loro che in una via del centro. Volevano mostrare a tutti quanti soldi avevano speso per quegli abiti: mica pochi. Li sentivo parlar male dei migranti, dei musulmani, degli albanesi. Facevano i simpatici con la ragazza polacca che serviva a mensa, le chiedevano “una porzione competitiva”, e lei li accontentava perché la facevano ridere. Ma a tavola, l’unica volta che mi sedetti con loro, scommisero che l’avrebbero portata a letto sventolandole davanti venti euro. “Se gli fai vedere gli euro non resiste”, diceva il figlio di un banchiere, un mio concittadino nel cui muso m’ero imbattuto a Perugia come in una nota stonata. Ogni volta che l’ho rivisto, ho abbassato gli occhi per vergogna. Mi vergognavo per non averlo insultato, quel giorno, quando parlava così della ragazza polacca. Non ci ho saputo fare. È colpa mia.
Sono tornato dall’università. Nella “casa dei ricchi” non sono più entrato. Sto nella mia provincia asfittica come una somma di province. L’arancione della casa s’è sfatto e nessuno l’ha più ridipinto. I genitori di Giada andavano in vacanza tre volte l’anno. Ma con la crisi molti banchieri sono stati ceduti a una società esterna. Quasi nessuno dei banchieri lavora più alla banca. Chi passava quel portone aveva l’aria arrogante del successo, prima. Ora li vedi entrare a capo chino. La madre di Giada ricaricava la carta di credito con un’altra carta di credito. “I soldi non mancano”, ripeteva alla figlia. Ha smesso di dirlo, ora che, per non farsi staccare la luce, ha dovuto vendere il garage e la cantina, quelli dove io e Giada mischiavamo il godimento alla fuliggine e dove leggevamo Boris Vian.
Il mio collega d’università, quello che a Perugia vantava un danaroso ascendente sulla ragazza polacca, l’altro ieri stava prendendo a sprangate il vetro di un’ex casa occupata, gridando che i suoi non potevano pagare le bollette perché i rumeni della casa occupata gli avevano rubato tutto. Non sapeva nemmeno che quella non era più una casa occupata. Urlava come una fogna a cielo aperto. Nessuno dei passanti gli badava: avevano l’aria d’essere immersi in problemi troppo seri. E poi, per loro, lui rimaneva il figlio d’un banchiere, uno ricco, uno coi soldi.
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(I nomi e i fatti narrati nell’articolo sono esclusivamente frutto di fantasia. Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale)
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