Fotografia di Andrea Silva
Di LISA ORLANDO
Che palpiti, che sudor freddo! Avevo negli orecchi ormai solo suoni d’apocalisse, come il “buch buch buch” dei vampiri nelle ballate romantiche. Eppure, sapevo (presagivo?) che vi era ancora, per me, l’ultima possibilità di salvezza (una soluzione di amore?, l’accensione di una passione?), ma non dirò nulla di quanto accadde successivamente. Getto fin d’ora nei barbagli del fuoco il mistero del tempo del poi. La mappa della narrazione. Potrei ricorrere ad operazioni di filtraggio, ammaestrando parole, setacciandole, sottraendole; tuttavia, per il mio carattere propenso al dubbio e all’introversione, mi piacerebbe che alle fine vedeste – con un occhio che scruti dall’alto gli spazi – solo un’immensa pianura di neve, e nell’aria immota del crepuscolo: una casa segreta.
Posso solo aggiungere questo: che quanto accadde era già accaduto da tanto di quel tempo (e credetemi, non per una mia prospettiva ossessionante), o da tanto di quel tempo era così prossimo, così imminente, che il non averlo fatto emergere in piena luce, mentre io invece lo percepivo vivamente nella mia esistenza di ogni notte, era il segno della mia intesa privata con quel presentimento.
Che in quella casa segreta (senza tempo? non v’erano appigli per una datazione), ci fosse una presenza, non avevo bisogno di far passi ulteriori per accertare la mia convinzione. Che, se andavo avanti (addentrandomi ancor più negli anditi dell’abitazione), qualcuno dovesse di colpo trovarsi dinanzi a me, assolutamente vicino, di una vicinanza imperscrutabile, che gli esseri umani assolutamente ignorano – immaginavo anche questo –; la scienza continui a celebrare il suo estremo trionfo!
Di quella casa, immersa in un’oscura tenebrità o (in un travaso di variante) nel fitto di una fulgida luce (ricorrendo, magari, all’iniziativa di un traduttore che l’abbia voluta, a un tratto, illuminare), conoscevo tutto, l’avevo penetrata fino a dilatare gli angoli più riposti; e, in un’intenzione conservatrice o per pura necessità, la lasciavo abitare in me, riconoscendole un posto essenziale; anzi, meglio: la facevo vivere di una vita che non è la vita, tuttavia, è infinitamente più forte di essa, e che nessuna forza al mondo potrebbe vincere.
Né occorre tralasciare che, malgrado la mia dichiarazione relativa al suo esserci, questa casa non respira, in essa non v’è nulla: nessuna ombra, nessun ricordo, nessun sogno, nessuna profondità; l’ascolto e nessuno parla; la guardo e nessuno la abita. Tuttavia, vi regna la vita più grande (più grande perché? per la sua funzione significativa?), una vita che ha radici nella sua materialità terrestre; che io tocco e che mi tocca, assolutamente analoga alle altre e che, col suo corpo, avvolge il mio, con la sua bocca marca la mia bocca, e i cui occhi si aprono, gli occhi più vivi, più veri e più intensi del mondo, che mi guardano, mi guardano, mi guardano! esprimendo la loro vocazione suprema.
Che venga qui, ora, e muoia chi non comprenderà questo.
Perché tale vita trasforma in menzogna la vita che è declinata dinanzi a essa.
E ora, bisogna che spostiate l’attenzione di quanto detto al finale prescelto: nessuna narrazione, ricordate? Non v’è trama per i movimenti discontinui delle ossa umane! E quanto inutile fragore producono gli avvenimenti. Tutto è stato bruciato tranne: l’immensa pianura di neve, e nell’aria immota del crepuscolo: la casa segreta.