Antonio Agosta2 ottobre 2013
«Ogni volta che riuscivo a sloggiare un arboscello, lo posavo accanto a me come un trofeo sullo stretto marciapiede che circondava la casa. C’erano polloni di frassino, olmo, acero, sambuco e persino una catalpa bella grossa, che mio padre mise in un secchiello da gelato e annaffiò, con l’idea di trovare un posto dove ripiantarla». Era l’estate del 1988, la stessa estate che segnerà per sempre la vita di Joe, il protagonista de La casa tonda di Louise Erdrich, romanzo vincitore del National Book Award 2012 che la critica americana ha paragonato a Il buio oltre la siepe di Harper Lee e che in Italia è stato pubblicato lo scorso luglio da Feltrinelli con la traduzione di Vincenzo Mantovani. La storia è ambientata nel North Dakota, in una immaginaria riserva indiana. Scelta non casuale visto che la Erdrich, nata nel 1954 a Little Falls in Minnesota, appartiene alla Turtle Mountain Band of Chippewa Indians. La casa tonda, quella del romanzo, è invece il luogo in cui i nativi della riserva praticavano, lontano dagli occhi dei preti che li avevano convertiti, i riti e le celebrazioni della loro religione. Per l’autrice, il volume diventa il pretesto per evidenziare, attraverso una vicenda di fantasia costruita però su decine di storie reali, le terribili e spesso neanche denunciate ingiustizie che ancora colpiscono il nobile popolo rosso. Ingiustizie come lo stupro subito dalla madre del protagonista del romanzo, Geraldine, per mano di un uomo che non è indiano. Come ha scritto su La Stampa Paolo Bertinetti, «Una violenza carnale con impossibile vendetta specchio delle colpe rimosse verso i nativi americani». Una violenza che segnerà, per sempre, la vita di una famiglia serena e orientata a un mondo quasi ovattato per il prossimo. Sarà lo stesso Joe a raccontarci in prima persona tutta la vicenda non mancando di trasmetterci il dolore vissuto da lui e dai suoi genitori in quella lunga estate calda tutta da dimenticare. L’aver ambientato il racconto nel 1988 non deve ingannarci: si parla di qualcosa di tangibile e purtroppo ancora di stretta attualità. Secondo un rapporto di Amnesty International del 2009, infatti, una donna indiana su tre subisce violenza nel corso della propria vita e nell’86% dei casi i colpevoli non sono indiani e solitamente non vengono perseguiti dalla legge, anche grazie a delle “strane” norme che permettono ad un bianco di farla franca se il reato è compiuto all’interno di una riserva.
Una realtà dura quella in cui si muovono i personaggi raccontati dalla Erdrich: uomini reali, non per forza perfetti o migliori, condannati ad una sorta di limbo, costretti a vivere come fantasmi e trattati ancora oggi da “diversi” in una terra con la quale mantengono soltanto un forte legame spirituale e nella quale vivranno un domani già segnato dalla loro storia di appartenenza. Il racconto inizia quasi a rilento, a volte poco fluido, per poi incalzare nella seconda parte della narrazione, dove emergono i tanti ricordi di una gioventù sconvolta da un fatto triste, privo di una sua logica per chi lo subisce. Nel North Dakota, per un tredicenne come Joe e per i suoi amici la vita scorre in maniera veloce, con la fermezza di voler bruciare le tappe prima della loro scadenza. Lattine di birra, sesso clandestino e sigarette fra le dita sono lo scenario di un mondo adolescenziale in rapida scadenza. Tutto questo è raccontato dalla scrittrice con la consapevolezza di non aver vissuto in quel mondo, ma di poterne essere testimone grazie alla sua discendenza indiana. Joe crescerà improvvisamente, ritrovandosi adulto, a sua insaputa, e artefice di una vendetta da lui programmata. Con l’aiuto del suo amico Cappy, quasi un fratello per lui, pianificherà l’uccisione dell’uomo colpevole della violenza su sua madre. Un omicidio voluto da quasi tutti gli abitanti della riserva, ma che nessuno ha il coraggio di mettere in pratica. Alla fine giustizia sarà fatta, due ragazzini e un fucile metteranno fine a quella brutta storia. Il torto subito verrà sì riparato ma non come dovrebbe essere in una società multirazziale che rispetti e protegga allo stesso modo tutti i suoi componenti. Dunque, un romanzo sicuramente politico dove la casa tonda si presenta come un luogo magico, ma tragicamente oscurato da un abuso sessuale, quello subito da Geraldine. Nessuno, nell’immaginaria riserva indiana, dimenticherà l’accaduto. Tutto si ripercuoterà nella loro esistenza per nulla nitida. Nascere e vivere in una riserva del North Dakota, per la gente significa solo che sei e rimarrai a vita un indiano in cerca di una propria identità territoriale. «Mi addormentai, e mi svegliai sulla sedia. Dovevo aver mangiato, e bevuto dell’acqua. Di questo non ricordo un bel nulla. Se non che guardai ripetutamente il sasso tondo che mi aveva dato Cappy, l’uovo dell’uccello di tuono. E ci fu quel momento in cui i miei genitori entrarono dalla porta travestiti da vecchi. Pensai che le tante miglia fatte in macchina dovevano averli fiaccati, dovevano avergli velato gli occhi e persino ingrigito e imbiancato i capelli, e fatto tremare le mani e le voci. Nello stesso tempo scoprii, mentre mi alzavo dalla sedia, che ero invecchiato insieme a loro». Era l’estate del 1988, un’estate da dimenticare, almeno per Joe e i protagonisti raccontati da Louise Erdrich nel suo La casa tonda.