Le origini
Per ben ventidue anni, ho trascorso nella frazione Caulera di Trivero almeno sei settimane – tra luglio e agosto – senza essere né residente né turista. Ero un lavoratore alquanto anomalo, nella zona. Non ero stato volto lassù dal cieco caso, né da ordini superiori: ci andavo di mia volontà, spinto da quello che sentivo incombere su di me come un obbligo nella mia vita di musicista. Nel 1973, ero un concertista di chitarra classica in piena attività, e credevo che l’arte della quale ero un esponente avrebbe continuato a occupare il ruolo prestigioso che le era stato guadagnato, nei decenni precedenti, dal grande maestro andaluso Andrés Segovia. Io non ero tra i suoi epigoni né tra i suoi allievi; seguitavo un cammino diverso, che io stesso non conoscevo e che scoprivo procedendo passo per passo, ma avevo meditato a lungo la lezione implicita nel suo fare musica, e ne avevo individuato alcuni aspetti a parer mio esemplari – in primis, la sua cura per l’espansione del repertorio, che egli aveva contribuito a rinvigorire incoraggiando i compositori a scrivere per chitarra. Le mie risolute prese di posizione nei confronti di alcune sue affermazioni, dalle quali avevo apertamente dissentito – naturalmente con pieno rispetto – mi erano valse, tra i suoi zelanti seguaci, la fama di “nemico di Segovia”, idiozia della quale fu lui stesso il primo a sorridere. A farla breve, in quegli anni, dal mondo della chitarra classica, si guardava al mio lavoro sia con approvazione e pieno sostegno, sia con un’avversione che andava al di là dell’esercizio del diritto di critica, e che assumeva caratteri da guerra di religione, essendo la mia parte quella dell’eretico da scomunicare.
Tra coloro che manifestavano un forte interesse per le mie ricerche sulla tecnica strumentale, sul repertorio e sull’arte dell’interpretazione musicale, c’erano allora soprattutto giovani aspiranti alla carriera concertistica, molti dei quali mi chiedevano di dar loro lezioni. Io allora non esercitavo un’attività didattica regolare e istituzionale: insegnavo al Liceo Musicale “G.B. Viotti” di Vercelli con orari irregolari e flessibili, che mi permettevano di svolgere le altre mie attività musicali senza restrizioni. Pensai allora di convogliare tutte le richieste che mi pervenivano e di dedicare sei settimane, ogni estate, a una forma di insegnamento che non intendeva sostituirsi a quelle cui già attingevano gli allievi (i conservatori italiani e i loro equivalenti all’estero), ma aggiungersi alle medesime, come un arricchimento. Poiché il periodo in cui la mia iniziativa si sarebbe realizzata era quello delle vacanze scolastiche, accettai il suggerimento di un mio conoscente, esperto di pubbliche relazioni, che mi improvvidamente mi consigliò di chiamare il corso “Vacanze chitarristiche”. In futuro, mi sarei pentito di quella denominazione, che portava con sé uno strascico di frivolezza: molti, leggendola, avrebbero pensato che si trattava di qualche raduno di ex figli dei fiori che strimpellavano accompagnando le canzoni di Joan Baez e di Bob Dylan, mentre, in realtà, sia per l’oggetto degli studi sia per la disciplina li governava, il corso era simile a un duro college accademico assai più che a un convegno di spensierati.
Roasio Sant’Eusebio
Nel 1973, quando decisi di dar vita alle “Vacanze chitarristiche”, non avevo la minima idea di dove e come organizzarle; ma – non diversamente da Segovia – anch’io avevo un seguito di sostenitori, e una signora di Roasio Sant’Eusebio, Rita Micheletti Fra, con un gesto mecenatesco, mise a mia disposizione la sua ampia casa – dalla quale avrebbe preso congedo durante i mesi di luglio e di agosto – per permettermi di farne la sede del corso. Dapprima, tutto procedette nel migliore dei modi ma, per quanto ospitale, casa Micheletti si rivelò ben presto troppo piccola per accogliere le richieste di partecipazione che mi giungevano da ogni dove, e al termine della seconda edizione, nel 1974, dovetti chiedere aiuto ai miei santi protettori per individuare una sede più capiente: si trattava di accogliere qualche decina di studenti in una sistemazione che offrisse loro le stanze per studiare e per dormire e una mensa per consumare i pasti a prezzi compatibili con le loro disponibilità.
La Caulera e l’albergo San Bernardo
A prendersi cura della mia aspirazione fu un uomo politico vercellese che amava la musica e che, nei miei confronti, si dimostrò sempre sollecito e protettivo. Era Marcello Biginelli, di professione assicuratore e, all’epoca, presidente della Camera di Commercio di Vercelli: la sua generosità e la sua gentilezza d’animo sono custodite tra i ricordi più preziosi della mia vita di artista. Morì giovane , e la notizia della sua repentina scomparsa mi avrebbe, non molti anni più tardi, gettato nella costernazione. Biginelli mise in moto la macchina delle informazioni di cui poteva disporre dall’alto della sua carica e, nel mese di settembre del 1974, mi comunicò di aver trovato la sede giusta per le “Vacanze chitarristiche”. Era l’edificio dell’ex albergo San Bernardo, situato nella frazione Caulera di Trivero, lungo la mitica strada dei rododendri. Della Panoramica Zegna io avevo visto alcune immagini – luogo da pittori, avevo pensato – e ne ero stato subito preso, ma non avevo mai potuto ammirarla di persona.
Ricordo nitidamente il breve viaggio da Vercelli a Trivero, nell’autunno del 1974, in cui Marcello mi accompagnò a visitare l’albergo e, subito dopo, a parlare con il sindaco. L’edificio era in corso di trasformazione interna (da albergo che era stato, stava commutandosi in scuola alberghiera) e, per le esigenze delle “Vacanze chitarristiche”, incarnava la perfezione: isolato, immerso nella quiete, sporto sulla valle e sulla non lontana pianura con una stupenda vista a perdita d’orizzonte, disponeva di camere confortevoli e offriva anche un’ampia sala per la mensa e un vasto soggiorno ideale per i concerti di musica da camera. Di meglio, non si sarebbe potuto trovare.
La visita al sindaco fu per me assai istruttiva. Supponevo che Marcello Biginelli avrebbe speso la sua parola autorevole per sostenere dinnanzi al primo cittadino di Trivero, al quale spettava di decidere se concedere l’uso dell’edificio (a titolo gratuito, beninteso), la qualità artistica del corso e i valori che vi sarebbero stati coltivati; invece, liquidato questo aspetto con un brevissimo accenno, il presidente informò il sindaco che un centinaio di persone – studenti, visitatori e giornalisti – avrebbero soggiornato a Trivero per sei settimane, in veste di consumatori paganti di beni e di utenti di servizi. Il sindaco – evidentemente sintonizzato sull’onda con la quale Marcello Biginelli trasmetteva i suoi segnali – chiese congedo per qualche minuto – probabilmente per consultarsi con qualcuno che lo sovrastava nelle decisioni da prendere – e tornò sorridente annunciando che “tutto era fatto”.
Incominciò così, nei primi giorni del mese di luglio del 1975, la storia di quella che potrei definire la mia seconda cittadinanza: vercellese di origini asiglianesi, costretto dal mio lavoro a viaggiare spesso (e poco volentieri), divenni una sorta di irregolare cittadino triverese, e subito mi resi conto di quanto fosse difficile rispondere alle attrattive della Caulera e della montagna percorsa dalla Panoramica e, al tempo stesso, mantenere la concentrazione sul severissimo lavoro che vi dovevo svolgere ogni giorno. Quando seppi che, poco distante dall’Albergo San Bernardo, procedendo verso Bielmonte, si giungeva alla spianata di Stavello – il sito della disfatta di Fra Dolcino – mi venne da pensare che quelli erano luoghi designati per dare ricetto agli eretici: per fortuna, io sarei stato guardato come tale solo per poco tempo e, invece di finire sul rogo, in futuro avrei corso il rischio di vedermi trasformato in un guru.
Gli allievi si mostrarono entusiasti nei riguardi del luogo, e non si fecero intimorire dai moniti di un custode dell’edificio, che tentava di renderli consapevoli dal pericolo rappresentato dalle (peraltro mai viste) vipere: non solo i ragazzi italiani, francesi, tedeschi, svedesi, britannici e americani del nord e del sud alternavano senza timore le sedute di studio con lunghe passeggiate per i sentieri e le “bocchette”, ma non di rado, quando il sole splendeva, prendevano i loro strumenti e andavano a esercitarsi nelle pinete, incuranti della venefica minaccia dei rettili che – secondo quando aveva detto loro il guardiano – pendevano dai rami degli alberi. L’unico chitarrista che ricevette un paio di morsi – davvero incisivi – fu un giovane di Verona. A segnare i suoi polpacci, peraltro, non fu una vipera, ma uno dei cani del pastore che abitava, con il suo gregge, nelle vicinanze: il fido aveva mostrato ostilità nei confronti della custodia di chitarra che lo studente portava a braccio – simile, di profilo, alla sagoma di un lupo – e, dopo aver inutilmente latrato per allontanare l’intruso che stava avvicinandosi, era passato a vie di fatto, dimostrando di meritare la fiducia che il suo padrone riponeva in lui. Fu quella la prima occasione in cui le “Vacanze chitarristiche” ebbero a servirsi dell’astanteria del centro Zegna, i cui medici avrebbero dovuto, negli anni seguenti, somministrare qualche sedativo a concertisti troppo emotivi, fasciare qualche testa ammaccata a causa di fatterelli che sarà opportuno non rievocare, iniettare anti-istaminici a vittime di punture di misteriosi insetti e persino diagnosticare una congestione gastrica a un virtuoso che soffriva – a suo dire – di un insopportabile dolore a un piede.
Il sindaco, che giungeva spesso in visita all’albergo con il volto solcato dal sorriso – ma anche con gli occhi ben aperti – dichiarò a più riprese la sua soddisfazione per l’evento, ma nell’imminenza della conclusione, intorno a Ferragosto, nel corso di un colloquio nel quale aveva accentuato il suo elogio delle “Vacanze chitarristiche”, mi annunciò che l’anno seguente (1976) la sede non sarebbe più stata disponibile, perché le camere dovevano essere convertite in aule e laboratori. Mi parve che il mondo mi crollasse addosso, e rimasi senza parola.
Trasloco all’Ipai
Il mio sconforto non durò più di un paio di giorni. L’indomani, infatti, mi si presentò il custode dell’edificio dell’Istituto Provinciale per l’Assistenza all’Infanzia (Ipai) che sorgeva dall’altra parte della strada. Mi portava l’invito della Madre Superiora che reggeva l’istituzione: avrebbe voluto incontrarmi. Il tempo di darmi una rassettata, e subito mi feci annunciare. La suora, che apparteneva alla congregazione delle Canossiane, era un’aristocratica dal tratto finissimo e, come le sue consorelle, era in attesa di partire da lì a poco per tornare alla casa madre: il compito delle religiose all’Ipai stava terminando e nell’istituto non c’erano più bimbi da accudire. Desiderava qualche lezione di chitarra per riprendere gli studi che aveva iniziato in gioventù, e poi abbandonato. Mi chiese di mandarle uno studente, ma io le risposi che avrei volentieri provveduto di persona, e così feci nei giorni seguenti. Era stata una discreta chitarrista, e non faticava molto a ricominciare. Fu lei a consigliarmi di chiedere all’Amministrazione Provinciale di Vercelli, proprietaria dell’edificio, di trasferirvi il mio corso appena sfrattato dall’albergo. La casa Ipai, un quadrilatero chiuso, con due piani sul lato della strada e quattro affacciati all’interno del vasto parco, non era meno capiente dell’albergo – sembrava anzi immensa – anche non altrettanto pregevole dal punto di vista architettonico.
Non sapevo a quale santo votarmi per prendere contatti con l’Amministrazione Provinciale ma, puntuale come un messaggero degli dei, arrivò in visita – proprio negli ultimi giorni del corso del 1975 – il presidente Biginelli. Era quello il periodo in cui, per la prima volta, nelle elezioni amministrative la sinistra aveva sopravvanzato il partito fino ad allora dominante, e io supponevo che il mio mecenate si trovasse in difficoltà. Invece, trasudava buonumore. Saputo il motivo del mio cruccio, chiese di poter effettuare un paio di telefonate, dopodiché mi annunciò come niente fosse che la nuova amministrazione sarebbe stata lieta, non soltanto di concedermi l’uso della sede Ipai per i corsi a partire dall’anno seguente, ma anche di assumerne il patrocinio e di sovvenzionarli. Non credevo alle mie orecchie: in dieci minuti, aveva posto fine a tutti i miei guai.
Fino a quel momento – al di là delle denominazioni che apparivano in facciata – il corso era sostanzialmente cosa mia, della quale ero l’unico responsabile e, purtroppo, anche il solo finanziatore. Mi fu subito chiaro – e ne ebbi un non piccolo sollievo – che, dal 1976, l’egida e il patrocinio del corso sarebbero stati assunti dall’Amministrazione Provinciale di Vercelli. Divenne quindi necessario riformare anche la struttura e i contenuti della manifestazione per adeguarla alla politica culturale dell’ente.
I concerti in provincia
L’innovazione più importante consistette nella programmazione di una serie di concerti che, durante il periodo dei corsi (luglio e agosto), sarebbero stati tenuti dai migliori allievi a beneficio delle associazioni culturali della provincia: le varie biblioteche e pro-loco avrebbero potuto richiedere all’amministrazione di ospitare uno o più concerti nelle loro sedi, assumendo i soli oneri dell’organizzazione. Fin dal primo anno del nuovo corso (1976) il successo dell’iniziativa fu ampio e risonante: la chitarra classica e la sua musica furono ascoltate, per mano di giovani e valorosi interpreti, in centinaia di luoghi – i più disparati, dai santuari più remoti ai circoli dove normalmente si giocava a scopa e a tresette. Questa apertura sul mondo aggiunse ulteriori motivazioni a quelle che gli studenti già sentivano per frequentare il corso: ricevere una decina di lezioni culminanti in un concerto – che tra l’altro la provincia retribuiva con un piccolo compenso atto a ridurre le spese di soggiorno all’Ipai – rappresentava un’opportunità rarissima, e fu oggetto di moltissime richieste – tanto che mi fu possibile accoglierne solo una parte.
La collaborazione con l’Amministrazione Provinciale di Vercelli mi portò a contatto con assessori e funzionari. Non ho dimenticato l’impegno alcuni di loro che profusero nel sostenere le “Vacanze chitarristiche”: ne furono contagiati, e si spesero a loro favore ben oltre i doveri d’ufficio. Ricordo in particolare il compianto Antonino Filiberti di Gattinara, assessore provinciale alla cultura, che non perdeva un concerto di chitarra e che, oltre a quelli già abitualmente in programma, inventò un concerto speciale da tenere ogni anno a metà luglio in Caulera: vi faceva convenire autorità politiche e personaggi del mondo imprenditoriale e professionale, in una sorta di party notturno allestito nel grande cortile interno dell’edificio Ipai, e più volte ebbi la sensazione che, in quei summit, la musica inducesse i manovratori del potere a mettere momentaneamente da parte le loro contese e a scambiarsi quattro chiacchiere in pace (se non proprio in amicizia).
Gli studenti
L’elenco dei nomi dei chitarristi che frequentarono, dal 1976 al 1992, i corsi estivi della Caulera è lunghissimo – non provo nemmeno a incominciarlo – e comprende parecchi virtuosi oggi acclamati, non pochi cattedratici attualmente in servizio nei conservatori italiani ed esteri, molti insegnanti di chitarra nelle scuole medie e nelle varie istituzioni pubbliche e private, e purtroppo anche moltissimi portatori di belle speranze poi smarritisi lungo i tortuosi sentieri della vita. Mi accade talvolta di domandarmi che ne sia stato del giovanissimo virtuoso svedese che, nel 1976, ammaliò gli ascoltatori con le sue esecuzioni brillanti e con il suo charme: il suo nome è ben presto scomparso dal mondo della musica, e non ha più dato notizie di sé… Per ogni progetto giunto in porto, ne potrei contare dieci che si sono dissolti – talvolta assai dolorosamente.
Le vicende delle quali sono stato testimone durante i ventidue anni in cui le “Vacanze Chitarristiche” si svolsero alla Caulera potrebbero costituire l’argomento di un romanzo-fiume, ma temo che non sarò mai in grado di scriverlo. Voglio però ricordare quello che mi comunicò uno degli allievi più colti e intelligenti, in una lettera del 1985 che mi dolgo di aver perduto. Era uno psicologo – oltre che un bravo musicista – e osservò qualcosa che a me, immerso nell’enorme impegno del lavoro di ogni giorno, allora sfuggiva: “Arrivando qui, i giovani aspiranti concertisti devono inevitabilmente andare fino in fondo alla ricerca della loro verità interiore. Il luogo isolato, senza svaghi e distrazioni, il programma di lavoro quotidiano, il confronto con gli altri, li obbligano a mettere alla prova la loro scelta di fare i musicisti, e di verificarne l’autenticità e la tenuta in una situazione che altrove non si presenta. Qui, ciascuno è posto di fronte a sé stesso, con il suo strumento e con la musica e, avendo le giornate vuote dinnanzi, e non può sfuggire alla domanda: il lavoro del concertista di chitarra è realmente ciò che intendo fare nella mia vita?”. Aveva ragione, e infatti alla Caulera non soltanto si tonificarono i propositi di molti concertisti in erba, ma si chiarirono gli equivoci e le incertezze di non pochi altri studenti che, al rientro dall’estate triverese, avrebbero deciso di abbandonare la musica e di dedicarsi ad altre attività. Mi è accaduto di ricevere messaggi da ex chitarristi che mi ringraziano per aver fatto comprendere loro che sarebbe stato un grave errore insistere nel proseguire studi per i quali erano poco dotati o poco vocati.
Per le sue caratteristiche architettoniche, il suo isolamento tra le pinete e per le leggende che i fantasiosi frequentatori delle “Vacanze chitarristiche” presto incominciarono a creare – inutile a dirsi, si trattava di fantasmi che si aggiravano nottetempo nei lunghi corridoi e tra gli alberi del parco – l’edificio Ipai ricevette diverse, nuove denominazioni. Dopo il 1981 – anno in cui fu proiettato il thriller di Stanley Kubrick intitolato “Shining” – gli fu appioppato il nome “Overlook”, decisamente immeritato: nell’enorme casone si costituirono e si sciolsero formazioni di musica da camera, amicizie e relazioni, e persino qualche matrimonio, ma, grazie al cielo, non si verificarono mai fatti di sangue. Tutt’al più, si registrò qualche fenomeno allucinatorio, causato dalle paure nelle quali precipitavano alcuni ragazzi che, abituati ai trambusti delle città, trovandosi di colpo in un luogo dove regnavano quiete e silenzio, rivelavano comicamente la loro immaturità.
I musici e Trivero
Un capitolo dell’ipotetico romanzo dovrebbe essere dedicato alle relazioni che si stabilirono tra la comunità triverese e quelli che la medesima incominciò ben presto a chiamare “i musici”. Luoghi deputati di questi rapporti erano il Santuario della Brughiera – dove si svolsero per molti anni concerti di chitarra in ogni fine settimana –, i negozi del centro e soprattutto il bar del centro Zegna, dove i chitarristi si davano convegno alla fine dei concerti. Da parte della cittadinanza, non ci fu mai una completa accettazione di quegli strani ospiti estivi: erano buoni clienti dei commercianti locali, ma vennero sempre guardati come degli alieni. Non mancarono episodi di divertenti incomprensioni, quale fu quello verificatosi in un negozio del centro, che offriva un servizio di fotocopiatura al quale i musici ricorrevano molto spesso, assetati com’erano di partiture da mettere sul leggio. Un chitarrista di sofisticata formazione letteraria, scandalizzato per il costo delle riproduzioni, dichiarò al negoziante: “Ma questa è una grassazione!”, e l’altro, compiaciuto, gli rispose: “S’immagini, facciamo del nostro meglio per venirvi incontro, dato che venite qui tutti i giorni”.
L’indifferenza dei triveresi si specchiò anche nell’atteggiamento degli amministratori locali: in ventidue anni, il comune di Trivero – dopo la concessione dell’albergo San Bernardo nel 1975 – non mosse un dito per manifestare – non già un qualche sostegno concreto, che non fu mai sperato né richiesto – ma anche soltanto un segno di approvazione per le “Vacanze Chitarristiche”. Non ne fui indispettito, ma non potei evitare, tra me e me, il confronto con quello che avveniva altrove: in Basilicata, a Lagonegro, per la mia partecipazione al festival di chitarra – un impegno molto meno gravoso di quello che sostenevo alla Caulera – dopo pochi anni il sindaco mi aveva conferito la cittadinanza onoraria!
Da parte mia, invece, l’interesse per il luogo, la sua storia, i suoi valori, fu sempre aperto e manifesto: strinsi amicizia con i validissimi pittori del luogo – Ido Novello, Alberico Verzoletto, Ermes Cancelliere e Giorgio Loro Piana – e cercai di creare un ponte tra la musica e la pittura, organizzando una mostra collettiva intitolata “I pittori di Trivero” al Santuario della Brughiera. Più felice – seppur breve – fu il connubio con il piccolo luogo d’arte della vicina frazione Bonda di Mezzana Mortigliengo, dove chitarristi e pittori usavano darsi convegno, con la regia del nume tutelare del luogo, il pittore Gastone Cecconello. Cercai di stimolare l’interesse della gente di Trivero scrivendo un paio di articoli nei quali raccontavo e descrivevo come i visitatori provenienti da altri paesi vedessero il luogo – e percepissero soprattutto l’incanto della Panoramica Zegna – uno dei più bei giardini d’Italia. Pubblicati da “La Stampa”, gli articoli mi valsero elogi da ogni parte, ma da Trivero il silenzio fu completo e glaciale.
Il Santuario della Brughiera
Oltre ai concerti che si svolgevano nel biellese, nel vercellese e in Valsesia, il cartellone delle “Vacanze chitarristiche” offriva ogni estate una serie di recital al Santuario della Brughiera. Quel luogo è rimasto nella memoria di chi vi ha suonato e di chi vi è passato in veste di ascoltatore come un’esperienza incancellabile. Collocato nel mezzo di un giardino, e dunque protetto dai rumori,
il Santuario sembrava fatto apposta per dare al suono della chitarra un risalto che aveva qualcosa di magico: non abbastanza ampio da creare echi, lo spazio delle navate aggiungeva alle onde sonore una sorta di respiro, un galleggiamento che permetteva l’espansione di ogni minima nuance timbrica quale nessuna sala da concerto – tra le molte che conoscevo e che avevo sperimentato – avrebbe mai potuto uguagliare. Quel prodigio acustico si associava con l’incanto sprigionato dall’umile bellezza della costruzione e del giardino che la circondava: giungere lì era un modo per uscire dal mondo e accedere a un’esperienza mistica, al cui fascino non si sottraeva nessuno – nemmeno i visitatori più lontani da ogni forma di spiritualità.
Nell’intervallo tra le due parti di ogni concerto, gli spettatori uscivano nel giardino e facevano la fila dinanzi alla fontanella che sorgeva ai margini della strada per bere un’acqua le cui virtù non erano ben note, ma che veniva da tutti considerata taumaturgica. Qualche esperto di mineralogia spiegava l’origine degli incredibili colori delle ortensie, dovuti a una specialissima composizione delle rocce sottostanti.
Al Santuario giungevano puntuali, ogni sabato e ogni domenica sera, alcuni ascoltatori affezionati, che, dopo il concerto, se ne andavano ringraziando l’esecutore con un sorriso e una stretta di mano. Presenza costante e discretissima fu, per anni, quella del pittore Ido Novello, genius loci che fu difficile snidare dalla sua riservatezza: ci istruì sulla storia locale – a partire da quella del santuario – con una sapienza da lasciare sbalorditi i giovani che, oltre al conservatorio, frequentavano anche l’università.
Non sono il solo a pensare di non essere mai stato tanto vicino all’essenza della musica come in quel luogo e in quel tempo. Della Brughiera potrei dire, citando i versi che un grande poeta rivolgeva alla valle di una sua perduta beatitudine: “…un nome – e ora nella scialba/memoria, terra dove non annotta.”
Restauri e chitarre
Fu una sorpresa – che salutai calorosamente – l’iniziativa del Doc.Bi di dar vita a una serie di eventi intitolata “Restauri e chitarre”: l’idea dell’architetto Giovanni Vachino, di associare un concerto di chitarra alla presentazione di un bene artistico recuperato e restaurato, chiamando a raccolta sia il pubblico abituato ai concerti sia gli studiosi e appassionati d’arte e di storia locale, mi parve subito originale, e dimostrò la sua efficacia, tanto che fu tenuta in vita – e tuttora prosegue – anche dopo la fine delle “Vacanze chitarristiche”. Mi fu fatto osservare, peraltro, che l’architetto Vachino non era di Trivero, ma di Ponzone!
Il declino
Alla fine dell’edizione del 1992, seppi che l’edificio ex Ipai, che era stato la casa delle “Vacanze chitarristiche” dal 1976, sarebbe divenuto proprietà dell’appena costituita Provincia di Biella. Ebbi subito la percezione delle difficoltà che sarebbero sorte. I contatti con la nuova amministrazione furono scoraggianti: fin dal primo momento si manifestò la scarsa inclinazione dei politici biellesi a ereditare dalla provincia di Vercelli una manifestazione della quale ignoravano i contenuti, i valori e le finalità, e che non si sentivano né di arricchire né di liquidare. A me, d’altra parte, giungevano sollecitazioni da diverse parti per trasferire il corso altrove, e l’anno seguente (1993), decisi di accettare l’invito della regione della Valle d’Aosta, che metteva a disposizione del corso l’accogliente e attrezzatissimo convitto regionale di Chatillon. Non volli tuttavia recidere di netto i contatti con Trivero e ,in quella stessa estate, mantenni in vita un’edizione minore – di soli dieci giorni – delle “Vacanze chitarristiche” alla Caulera. Fu soltanto uno scrupolo, il mio: in realtà, era storia finita. Lo era anche quando, nel 1997, la professoressa Silvia Marsoni, nuova presidente della provincia di Biella – persona di finissima cultura e di grandi capacità organizzative – mi esortò a tornare alla Caulera, e dimostrò la serietà dei suoi propositi con una lettera d’intenti che mi convinse. Nel 1998 e nel 1999, tornammo, i miei studenti e io, alla Caulera, ma fu solo un sussulto. Tralascio il racconto delle vicende che mi spinsero, alla fine del corso del 1999, a chiudere definitivamente l’esperienza triverese: sarebbe un racconto imbarazzante e molto triste, e vorrei invece sottolineare, nel mio ricordo di quell’infausta appendice, il tratto della presidente Marsoni, che mostrò, in situazioni difficili quali quelle in cui fummo spinti – noi ospiti alla Caulera – generosità e coraggio.
Una visita
Se mi si domandasse oggi qual è il ricordo più toccante che serbo di quei ventidue anni per rispondere non dovrei raccontare un evento musicale, ma un fatto che mi scosse profondamente. Un pomeriggio di domenica, nel mese di agosto del 1992, ero solo nell’ampio cortile dell’edificio Ipai. Gli allievi erano partiti per recarsi a un concerto da tenere piuttosto lontano – chi doveva suonare, chi voleva ascoltare – e io avevo approfittato di quell’esodo per rimanere qualche ora con me stesso – Iddio sapeva quanto ne avessi bisogno. Seduto su una panchina, stavo suonando – solo per il mondo che mi circondava – una “Sarabanda” di Johann Sebastian Bach e non pensavo a nulla. D’un tratto, mi trovai dinnanzi la figura di un uomo (poteva avere l’età dei miei allievi meno giovani, forse 35 anni) che, non osando interrompere la musica, aspettava che io finissi l’esecuzione. Timidamente si scusò per il disturbo. Era evidente sul suo volto il segno di una commozione profonda – quasi di una sofferenza. Gli domandai che cosa cercasse ed egli, con parole spezzate, mi rispose che avrebbe voluto entrare nell’edificio – me ne indicò un’ala con un gesto circolare della mano – per rivedere…e si interruppe, sopraffatto dall’emozione. Compresi che si trattava di uno degli orfani che erano stati allevati dalle suore lì, nell’istituto della Caulera. Uomo fatto, aveva voluto ritornare nel luogo della sua infanzia, per rivisitarne le stanze: le aule dove era stato scolaro, la camerata dove aveva dormito, la sala della refezione dove aveva mangiato, la cappella dove aveva imparato le preghiere. Lo sguardo mi corse al portone d’ingresso, dove sostavano, in rispettosa attesa, una giovane e un bimbo – la sua famiglia, quella famiglia che, da piccolo, lui non aveva avuto. Tutto quello che riuscii a fare fu rispondergli con un cenno del capo, in segno di assenso, fingendomi assorto nella musica: non meno di lui, avrei durato fatica ad articolare qualche parola.
Angelo Gilardino