Nella nostra complessa e stratificata società contemporanea è auspicabile mettere in luce la portata etica ed antropologica del rapporto con il vissuto, vale a dire con l’esperienza singolare e comune della perdita e del suo legame con l’affettività, emozioni costitutive di tutto ciò che è umano, ripensandole, nel tentativo di scrostarle da ogni visione tragica e buia.
Walter Benjamin (Charlottenburg, 15 luglio 1892 – Portbou, 26 settembre 1940) è stato un filosofo, scrittore, critico letterario e traduttore tedesco.
Ed è qui che ci viene incontro Walter Benjamin. Nel suo saggio intitolato “Il compito del traduttore”, il pensatore tedesco parla di una “maturità postuma”. Benjamin non si spinge oltre a questa frase, ma se ci si sofferma a riflettere su di essa, la si può riferire a ciò che è andato perduto, nel vissuto, in ciò che è stato.
Qualcosa che non consola ma, al contrario, sconvolge in quanto catastrofe, la quale però reca in sé una possibilità – intesa come germe di vita – in ciò che è compiuto, giunto alla fine, invitando quindi ad una riconsiderazione della perdita come qualcosa di non mortifero ma anzi vitale e rivelatrice di speranza. La speranza delle cose preziose, piccole e sobrie da cui partire, ricominciando da capo, costruendo l’esperienza singolare e comune.
Perché tutto ciò? Benjamin arriva a pensare questo alla luce del fatto che i soldati reduci dalla Prima Guerra Mondiale tornavano incapaci di comunicare quanto avevano patito nella loro vita vissuta. Tale condizione di incomunicabilità è, secondo il pensatore berlinese, una situazione che connota il singolo come la collettività nella società del Novecento.
Le parole da lui usate per descrivere questo stato di aridità affettiva ed emozionale sono, a parer mio, adeguate ad illustrare anche e soprattutto il nostro tempo, i giorni nostri, in quanto, come egli scrive nel saggio “Il Narratore”, anche noi, tuttora, “[…] difettiamo di esperienze singolari e significative […]”. Non riusciamo più a raccontare e a raccontarci: lasciamo passare accanto a noi tutto ciò che ci accade senza viverlo sulla nostra pelle e nel nostro cuore. Non permettiamo più alle nostre esperienze di “lavorarci dentro”, segnando il nostro vivere, sentire, vedere noi stessi ed il mondo che ci circonda.
Non ci sono più persone e cose preziose da custodire dentro di noi proprio perché tali: belle e care, per questo importanti da tenere dentro il nostro “io interiore”: “perle rare di vita vissuta” che costituiscono la nostra affettività ed il nostro prenderci a cuore chi e ciò che è vicino. Deficitari di empatia così intesa, di conseguenza non riusciamo a dare consiglio, perciò, nel cercare una via d’uscita da tutto questo, si potrebbe ripensare all’importanza di ciò che ci accade, quindi della contingenza, delle piccole cose quotidiane, preziose nel loro essere minuscole.
La perdita, il lieve esser cenere del vissuto, è accostabile a quanto afferma Benjamin a proposito dell’amore in quanto “spreco della nostra esistenza”. Amore che si rivela nella perdita, in ciò che va perdendosi, non lasciandoci nella disperazione, ma – “heideggerianamente” – gettandoci a piene mani nelle braccia dell’Esserci.