Comincio subito col dire che La chiave di Sara non mi è piaciuto. Non mi ha emozionato, non ha proprio mosso niente dentro di me, l’orrore che mostrava mi toccava solo superficialmente, lo sentivo in qualche modo costruito, artefatto. Sto cercando di capire meglio queste mie reazioni alla luce del consenso che il film ha ottenuto nel mondo e tra le persone a me vicine.
Al di là di tutto, La chiave di Sara ha il merito di raccontare un episodio storico gravissimo e dimenticato, avvenuto in Francia nel luglio 1942: il rastrellamento degli ebrei di Parigi, uomini, donne e bambini, e il loro concentramento al Vélodrome d’Hiver, dove furono trattenuti per giorni in condizioni inumane, per poi essere condotti prima in campi di smistamento e poi in quelli di concentramento e di sterminio. E il racconto non tralascia di mostrare che tutto si svolse su iniziativa delle milizie francesi e con l’organizzazione e sotto il controllo di poliziotti, funzionari e civili.
Il film procede su due binari: il primo segue le vicissitudini di Sara, una ragazzina sveglia e reattiva, dalla retata nella sua casa che la condurrà insieme ai suoi genitori al velodromo, fino agli anni Cinquanta; il secondo, ambientato nel 2009 mostra l’emozionante ricostruzione della vita di Sara da parte di una giornalista americana. Sempre più coinvolta, anche per motivi personali, arriverà a conoscere la verità nonostante gli ostacoli oggettivi e i meccanismi di rimozione messi in atto dai diversi protagonisti.
È forse quest’ultima la parte migliore del film, quella che si segue con maggiore tensione e curiosità. L’altra, come dicevo all’inizio, non mi ha convinta.
Provo a spiegarmi. Nelle storie ambientate durante la Shoah accadono avvenimenti spesso incredibili, la ragione fa fatica a convincersi che siano accaduti veramente. Se poi certi film sono la trasposizione di romanzi, e neppure di buon livello, come è il caso di questo, tratto dal libro omonimo di Tatiana de Rosnay, c’è il rischio che qualcuno possa pensare che ci siano delle esagerazioni. E questo non giova alla causa, soprattutto in tempi di negazionismo e in prossimità della morte dei pochi superstiti ancora in vita, che li farà tacere per sempre.
E di situazioni che sono dure da credere ce ne sono, soprattutto quelle che vedono una piccola Sara, appena decenne, sempre lucida, determinata e piena di iniziativa, a volte più degli stessi adulti che la circondano, raggiungere obiettivi stupefacenti. La storia della chiave e di tutto quel che ne consegue, che non anticiperemo, è sicuramente intrigante, ma in quanto a verosimiglianza lascia molto a desiderare.
Inoltre, come spesso accade, c’è nel film la tendenza a voler per forza provocare le lacrime in chi guarda esasperando scene o soffermandosi molto a lungo su alcune di esse, come per esempio nel caso della separazione forzata tra madri e figli, che sembrava non finire più. E, nonostante questo, non riuscire a far scaturire emozioni in me che in questi casi sono più che vulnerabile.
Kristin Scott Thomas interpreta Julia, la giornalista, in modo come sempre ineccepibile, buoni anche gli altri interpreti, tra cui spiccano Niels Arestrup, il contadino che accoglie Sara, uomo burbero e tenero, con la sua bella faccia segnata dal tempo e i suoi capelli candidi, e ovviamente Mélusine Mayance, la piccola Sara.
Belle infine alcune immagini, come la corsa nei campi o l’albero in mezzo al grano dorato, anche se forse un po’ di maniera.
Mi piacerebbe conoscere gli argomenti di chi ha apprezzato il film e di chi, come me, non è rimasto soddisfatto dalla visione.