«Quando una storia viene raccontata non può essere dimenticata, diventa qualcos’altro: il ricordo di chi eravamo, la speranza di ciò che possiamo diventare». In una calda estate parigina, in un lontano (poi non così tanto) luglio del 1942, in un’esasperata indifferenza, sotto gli occhi di un paese occupato, la polizia francese procedeva al rastrellamento di 13.000 ebrei. In un giorno apparentemente come gli altri di quella stessa estate, di quello stesso luglio, in una piccola casa di un quartiere popolare parigino, Sara – dieci anni ed ebrea – viene prelevata insieme alla sua famiglia non prima però di essere riuscita a chiudere il fratellino Michel nell’armadio nel tentativo di sottrarlo all’arresto. In quella stessa casa di quel quartiere un tempo popolare, sessanta anni dopo, comincia anche la storia di Julia, giornalista americana trapiantata a Parigi per amore. Sarà però solo la stesura di un articolo sui fatti del Vélodrome d’Hiver a far incrociare le loro vite, fino ad allora inconsapevoli binari paralleli di una stessa storia. La chiave di Sara (Elle s’appelait Sarah il titolo originale) è un film diretto da Gilles Paquet-Brenner e tratto dall’omonimo romanzo di Tatiana de Rosnay, che ha riscosso grande successo vendendo cinque milioni di copie. Sebbene lo scenario sia quello dell’Olocausto, a fare da protagonista non è il dramma delle deportazioni e dello sterminio di massa ma una storia tutta al femminile.
Da un lato quella di una donna in carriera, che si trova a fare i conti con la pesante eredità della famiglia del marito e con una gravidanza inaspettata, dall’altro quella di una bambina catapultata in questa tragica realtà solo per il suo essere ebrea. Non una fede ma quasi una condizione patologica da cui guarire, una colpa che è possibile lavare via solo col battesimo. La pellicola sfrutta il duplice punto di vista, e si sviluppa tra passato e presente, su due linee narrative parallele, dando alternativamente voce alle sue protagoniste. «A volte le storie che non riusciamo a raccontare sono proprio le nostre, ma se una storia non viene raccontata diventa qualcos’altro: una storia dimenticata». Ed è proprio la paura dell’oblio della memoria a spingere Julia, interpretata con mestiere da Kristin Scott Thomas, a far luce sulla vita di Sara (la bravissima Mélusine Mayance) e a raccontarla per restituirle quella dignità che la storia le aveva negato.
Quello dell’Olocausto è un tema con cui si sono cimentati registi di tutto il mondo, e anche se solo alcuni sono riusciti a dar vita a capolavori immortali, nessuno ci ha mai lasciati indifferenti. È uno di quei temi che non lascia spazio al sollievo della finzione cinematografica, non c’è conforto nell’idea di un set, di attori ed attrici che interpretano un ruolo. È realtà, e sebbene a volte romanzata e a volte esasperata, è comunque così terribilmente familiare e affine a quanto abbiamo studiato nei libri di scuola che non possiamo che rimanerne toccati. Dopo film più celebri e celebrati come Schindler’s List o La vita è bella, anche il cinema d’oltralpe si mette nuovamente alla prova e racconta questa triste pagina di storia che lo tocca così da vicino e in modo così poco lusinghiero. Il risultato ottenuto ha un forte impatto emotivo e investe lo spettatore coinvolgendolo e mettendolo di fronte, ancora una volta, ad una delle pagine più cupe del Novecento.