Quella narrata nell’albo “La chitarra di Django”, scritta da Fabrizio Silei ed illustrata da Alfred, è a tutti gli effetti una storia d’amore.
Gli ingredienti ci sono: lo scenario romantico della Parigi degli anni venti, con i suoi locali da ballo, le insegne luminose e i caffè, una grande passione, un evento tragico che rischia di mettere in crisi la futura felicità, la forza del sentimento e della volontà che riesce a superare e vincere l’ostacolo.
Ma i protagonisti del legame amoroso qui non sono, come ci si aspetterebbe, un uomo e una donna, bensì un giovane, appena diciottenne, e la sua musica, concretizzatasi in colei che fa da originale narratrice della storia: una chitarra.
Non è frequente ma questa non è nemmeno la prima volta che ci si imbatte in libri nei quali la voce narrante è quella di un oggetto al quale si attribuisce la facoltà umana del sentire e del ricordare. Ma trovo che qui la scelta sia particolarmente felice e azzeccata anche simbolicamente perché, di fatto, l’arte per chi la pratica – ed insieme ad essa gli oggetti fondamentali che ne permettono l’espressione – possiede davvero un’anima, in grado di ispirare, motivare, conferire coraggio anche là dove tutto ne vorrebbe la perdita.
Esattamente come l’oggetto d’un grande amore, proprio come la metà della mela che non solo completa ma rende se stessi in pieno e quindi conferisce significato alla vita.
Nessun grande artista dovrebbe rinunciare al proprio talento ma di fatto non sapremmo mai quanti potenziali sono rimasti chiusi nel proprio bozzolo senza mai diventare la farfalla che avrebbero potuto se gli eventi dell’esistenza non avessero remato contro. Piacciono però i racconti in cui il fiorire di una grande dote appare ineluttabile, più forte del nefasto destino, perché ci rendono un’ottimistica fiducia, da una parte nelle capacità umane, dall’altra nel potere quasi divino del talento autentico.
Così è la storia di Django Reinhardt, che fu chitarrista jazz della prima metà del ventesimo secolo, di provenienza gitana egli si affermò a Parigi per poi approdare, nell’apice della sua carriera, in America a condividere il palco con Duke Ellington.
In seguito ad un incidente – un incendio che coinvolse la sua roulotte nel campo nomadi dove viveva – rimase con una menomazione alla mano sinistra che gli costò la funzionalità di due dita.
Aveva iniziato, prima dell’infortunio, come suonatore di banjo nei locali notturni della città francese, riscuotendo successo per la sua evidente predisposizione naturale per la musica e il ritmo, affinate e coltivate anche grazie all’ambiente di saltimbanchi ed artisti di strada nel quale era vissuto. Ma con la perdita delle dita tutto pareva compromesso.
Fu l’incontro con una chitarra a cambiare la sua vita segnata. Con essa riuscì a superare l’impedimento dato dall’invalidità per sviluppare una tecnica rivoluzionaria che lo portò al successo, consacrandolo come una delle figure fondanti del jazz e successiva fonte d’ispirazione per altri artisti.
Questa è la traccia vera di una vita intera, seppur breve. Fabrizio Silei ed Alfred ci offrono, nelle pagine del loro albo, un racconto che si focalizza soprattutto sulla porzione di tempo – cruciale – che va da poco prima della tragedia a poco dopo. L’attimo di smistamento tra dimensioni parallele di possibilità: l’una sola porta, come è accaduto, alla Storia.
E’ ben chiara subito l’ambientazione: una tavola a doppia facciata apre il libro con la vista d’una via parigina al calar della sera. Il testo, che è confinato nell’ombra ma non per questo non risalta, ci racconta del momento in cui si posano le attività lavorative quotidiane – i doveri – e si aprono i sipari affascinanti e scintillanti dell’intrattenimento notturno, dalle balere ai caffè, dalle bettole ai night club.
Alfred è molto bravo con la modulazione della luce – in tutte le sue tavole chiari e scuri si rincorrono per ben rendere ombre e luci di interni ed esterni, zone dove la luminosità accende i particolari, altre dove l’oscurità confonde ma non cela, anzi conferisce un fascino misterioso e più difficilmente palpabile.Silei invece sorprende con un testo che dichiara da subito di non voler solo raccontare una storia di musica ma intende farsi, in un certo qual modo, musica a sua volta inframezzando ai periodi verbali delle onomatopee collegate al senso delle parole.
In un primo momento questo appare un vezzo piacevole ed originale. I suoni onomatopeici di solito sono destinati alle pubblicazioni per bambini piccoli mentre l’albo in questione è chiaramente per ragazzini già grandicelli, perfino per adulti.
Ovviamente la funzione della “parole sonore” qui è ben diversa dal consueto: oltre a movimentare, fluidificare, rallegrare la narrazione lancia un indizio su ciò che si comprenderà appieno solo andando avanti: l’identità della narratrice, la quale, essendo una chitarra, non può che parlare per suoni.
Interessante è poi la grafica delle onomatopee che non sono rappresentate con l’elegante carattere tipografico scelto per il testo verbale ma come fossero le insegne luminose di un night club di quegli anni.
Leggerle è un poco accenderle, con un cortocircuito tra luce e musica molto evocativo delle atmosfere del tempo che nella nostra fantasia si configurano come scintillanti e melodiose, tra gli strumenti dei musicisti e le paillettes delle dive e delle ballerine.
Un ragazzo che non sa scrivere né leggere, che appare ancora più legato al mondo delle sue origini e tradizioni che al nuovo che gli si prospetta.
Silei affida molto del suo narrare a terzi personaggi che, in veloci dialoghi, si passano il testimone per tracciare il profilo del protagonista. Ecco allora il proprietario del locale dove Django si esibisce e il ragazzino al suo servizio, il fisarmonicista cieco e l’impresario ricco, le ballerine e gli ubriaconi, musici strampalati, fenomeni da baraccone e artisti della strada.
L’effetto è quello di un mosaico bizzarro, coinvolgente e vivace che delinea la Parigi dei locali e delle vie dei mitici anni ruggenti. Il quadro si va componendo davanti agli occhi di chi legge ben tratteggiando sia il personaggio di Django – che pur parendo rimanere al margine emerge netto nella sua selvatichezza, prima, e in una nuova consapevolezza e maturità, poi – sia il clima fervente e animato in cui si muove, caratterizzato da tante figure diverse ma unite in una composizione sociale eccentrica ma viva, calda, dalla quale emerge anche una decisa vena di solidarietà.E’ proprio la solidarietà a salvare l’uomo e il musicista. Quando, infatti, Django, dopo l’incendio, giace spento in un letto d’ospedale, attendendo le cure che saranno poi lunghe e faticose, tanti di coloro che lo avevano conosciuto e apprezzato come artista organizzano per lui una colletta per acquistare e donargli una chitarra.
Bestia strana una chitarra per un banjista. Per giunta, ancora più corde per chi di dita ne ha meno.
Sarà il tempo a placare e a rendere piano piano necessario e felice l’incontro tra due anime destinate: un giovane dall’eccezionale talento e lo strumento che gli permetterà di esprimerlo appieno.
E’ a questo punto che l’identità della misteriosa narratrice si rivela, forse perché è ora che la chitarra inizia ad esistere: nel momento in cui viene resa viva dalla passione e dall’arte.
Bella e simbolica la scelta di far coincidere il giorno in cui Django vince la sua chiusura e decide di avvicinarsi alla chitarra con quello della nascita del figlio. Due atti di venire alla luce, due esseri che si trovano di fronte al cammino entusiasmante e faticoso del crescere.
Il racconto rende bene e in maniera poetica, infatti, anche lo sforzo necessario a Django per reimparare a suonare, perché importante che chi legge, soprattutto nel caso siano ragazzi, sappia che ogni risultato costa impegno e perseveranza, costanza e determinazione. Il riscatto da un destino improbo non è indenne da sudore, frustrazioni e richiede perseveranza.
Da qui in poi gli anni del successo – che non durano a lungo perché Django morì a soli 43 anni – fino all’apice della carriera con i concerti suonati oltreoceano con il re del jazz.
Infatti un altro panorama cittadino, sempre luminoso sempre notturno, chiude l’albo. E’ quello di una New York del dopoguerra, con le insegne dei locali che scintillando chiamano i passanti al divertimento serale.
Le due tavole, di apertura e chiusura dell’albo, sono speculari e si richiamano a vicenda, come se fossero sotto la lente di un obiettivo che non è cambiato ma ha solo compiuto un lungo viaggio, di anni e miglia da un paesaggio all’altro. Il cammino di un’esistenza sostenuta dal talento e dalla volontà.
(età consigliata: da 8 anni)
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