La proiezione eurasiatica della Cina si delinea all’interno di un rinnovato Grande Gioco in Asia centrale, intorno al mackinderiano pivot cui si connette la Via della Seta, arricchita oggi di significati geopolitici le cui radici affondano nella contesa imperialista del XIX secolo. Le dinamiche attuali misurano un confronto-scontro di potenza in simbiosi con i cambiamenti che caratterizzano l’emergere di nuove polarità sulla scena globale. La Cina odierna vi partecipa attivamente, ormai da tempo sicura e forte dell’uscita da quel passato umiliante che la vide oggetto, indebolito e diviso, delle mire intrecciate di attori esterni in una lunga fase di sussulti politico-economico-militari.
Tra gli spazi e gli interstizi di quello che fu l’Impero britannico sul versante asiatico, gli statunitensi ambiscono al pivot e inquadrano il territorio afghano come cuneo di penetrazione che consenta loro di riformulare un containment che ha come obiettivo la Russia così come la Cina, attori principali di un’intricata sfida continentale con in palio risorse energetiche, linee di comunicazione, sfere di influenza, processi economici e presenze militari. Anche Pechino, dunque, gioca la sua partita afghana. Una partita, dicevamo, in divenire storico.
Era il 1873 quando l’accordo russo-britannico Granville-Gortchakov estese verso est il confine afghano a ridosso dello Xinjiang cinese dove, nel 1877, Pechino si trovò ad intervenire col pugno di ferro per sedare delle rivolte innescate dall’azione espansionistica, supportata dagli inglesi, del capo turkmeno di origine uzbeka Yakub Beg, lanciato alla conquista di Kashgar, Yarkand e appunto dello Xinjiang che erano sotto l’egida dell’Impero cinese. Mentre Londra, da parte sua, cercava allora di premere nella zona Somtash-Lago Zorkul-Vittoria, lungo il confine afghano-tagiko, Pechino puntava alla conquista del Pamir sul fianco occidentale, subendo però un rovescio ad opera dell’azione congiunta di russi e britannici. La missione Durand del 1893 arrivò a formulare i confini dell’Afghanistan senza la partecipazione cinese, definendo una zona-cuscinetto in Asia centrale che penalizzava
la Cina e che la poneva in contatto con il territorio afghano mediante il Corridoio di Wakhan, una striscia di separazione tra India e Impero zarista che la Gran Bretagna immaginava – nel complesso sistema di confini, pesi ed influenze – di utilizzare come punto di pressione contro la Russia facendo leva sugli attriti tra questa e la Cina. Il corridoio costituisce l’anello orientale dell’Afghanistan e la porta posteriore verso Kabul dalla visuale cinese. Esso consente l’accesso a importanti giacimenti minerari, a grandi quantità di metalli industriali quali litio, cobalto, rame e ferro attraverso i quali pianificare un significativo intervento geoeconomico nella regione.Il confine sino-afghano fu pacificato dal 1949 e oggetto di mutuo riconoscimento nel 1957, mentre prima e dopo questa data aveva luogo un susseguirsi di conflitti e contese politico-territoriali che reiterava a più riprese il meccanismo intricato del Grande Gioco tra Mosca, Kabul, Islamabad, Nuova Delhi oltre che Londra e Washington.
Nella fase attuale che rinnova esigenze antiche, l’opzione cinese è quella di un arco strategico che va dall’Aksai Chin fino al Tibet e allo Xinjiang, ponendo sotto controllo il passo del Karakorum, nodale per il collegamento tra i territori cinesi ed il Kashmir pakistano. Oggi, nel solco di un’ipotetica ricucitura con le esigenze strategiche della Cina imperiale e di quella ottocentesca nonché della visione maoista, Pechino inquadra il Pamir come l’asse centrale della sua espansione terrestre, come il proprio nucleo geostrategico nella pianificata proiezione dall’Heartland al Rimland, lungo le traiettorie verso il Sudest asiatico, l’Oceano Indiano, il Golfo Persico e da qui fino al Mediterraneo.
Ciò è parimenti misura delle disomogenee relazioni sino-islamico-jihadiste e del differente e speculare nesso che contrappone queste a quelle rispettive degli statunitensi. La guerriglia jihadista si professa globale nella misura in cui in realtà si declina come grimaldello o guerra per procura in vari contesti regionali. Ad usum delphini delle potenze di turno, essa è funzionale ai tentativi di interdizione così come alle esigenze di logoramento del nemico o competitore. Soprattutto, consente una penetrazione politico-militare indiretta o all’uopo è prodromica ad una diretta.
Nella variante sino-nordamericana, la spada jihadista porta Washington a premere su Pechino nei termini di un’instabilità afghana il cui contagio è già in atto ma rischia di assumere aspetti difficilmente gestibili per i Paesi vicini, come il pericolo di una saldatura con le istanze uigure. I cinesi, intenti ad un limato approccio pragmatico, si avvantaggiano dell’impantanarsi statunitense a Kabul, ma nei limiti in cui ciò è a loro funzionale al fine di guadagnare margini operativi. Nello stesso momento, però, hanno consapevolezza di non potersi permettere un’escalation islamista in Afghanistan, nel Jammu-e-Kashmir, in Pakistan e soprattutto nello Xinjiang, dove una rivolta uigura rischierebbe di innescare una spirale di crisi etnico-separatiste nelle sue regioni autonome con inevitabili riverberi sul piano dell’unità geopolitica e della tenuta politico-economica. C’è anche un calcolo di probabilità: affermandosi come mercato primario del petrolio medio-orientale, la Cina potrebbe riuscire a stemperare il supporto wahabita o sciita a determinate frange jihadiste che la insidiano.
Pechino incrocia la propria azione con quella dei gruppi islamisti lungo due percorsi paralleli: uno comprensivo delle zone della Siberia orientale e delle repubbliche centroasiatiche, l’altro relativo all’area dell’Afghanistan, del Pamir, del Kashmir e del Pakistan nord-occidentale. Non è interessata alla “guerra al terrore” né a sostenere le varie lotte jihadiste sparse, ma è per deviare il moto di instabilità islamista (o di altro segno mediante la leva delle varie guerriglie) verso determinati punti di frizione con altri Paesi e per securizzare le aree limitrofe e interne a rischio contagio e quelle laddove si innestano i corridoi energetici e quelli geostrategici dalla terra al mare.
Il controllo del Pamir-pivot consentirebbe di muovere la direttrice geopolitica cinese da un lato lungo la pista terrestre dell’Asia centrale-Via della Seta, dall’altro verso gli sbocchi marittimi dell’Oceano Indiano (nel linkage con quelli nel Sudest asiatico-Pacifico), cioè verso le coste pakistane e indiane per poi materializzare la sua correlazione strategica con Iran-Golfo Persico e da qui con il Mediterraneo. Dunque, sussiste un ventaglio di interessi per la Cina: a) entrare in maniera estremamente redditizia nell’intrigo afghano, ma fuori da qualsiasi coinvolgimento militare, integrandolo nella propria strategia regionale; b) avvalersi della Sco (Shangai Cooperation Organization), blandendo frizioni regionali, anche quelle con Mosca, multilatelarizzando oneri e vantaggi e soprattutto marginalizzando l’influenza nordamericana; c) consolidare i rapporti già buoni con un Pakistan da stabilizzare, costituendo esso lo sbocco ai “mari caldi” con i suoi porti di Gwadar e Gadani sul Mar Arabico; d) puntellare il legame con Teheran, snodo per l’espansione economica, per i rifornimenti petroliferi e per l’accesso al Golfo Persico, al Corno d’Africa e al Mediterraneo; e) incidere negli assetti dell’Asia meridionale; f) valorizzare le sea lines.
Integrando tutto ciò con la sua “naturale” politica del Pacifico, l’asse pivot terrestre-rimland consentirebbe a Pechino di respingere il containment di Washington, di attenuare il legame geoeconomico sino-nordamericano e nello stesso tempo di continuare a perseguire una diversificazione produttiva e finanziaria della sua crescita mediante una struttura di influenza e controllo in Africa e nel Medio Oriente e incrociando la Via della Seta con il Mediterraneo, fino ad accrescere i legami con l’Europa.