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La Cina si ferma e il mondo trema (di Mariana Mazzucato)

Da Rene1955

via Repubblica Economia & Finanza

DOBBIAMO davvero preoccuparci per quello che sta succedendo in Cina? Il recente rallentamento e gli ultimi sviluppi dei tassi di cambio sono solo piccole increspature o c’è davvero da pensare che la crescita – per tutti fondamentale  –  della più importante tra le “economie emergenti” sia ormai finita – con pericolose ripercussioni globali? Tutto sta a individuare le cause. Ma sembra che le analisi di tipo tradizionale stiano sbagliando bersaglio: confondono le cause del problema con i sintomi.

In un momento difficile per l’economia mondiale, ancora in affanno per l’ultima crisi finanziaria, con bassi livelli di domanda aggregata per i tagli di investimenti e spesa in molte nazioni, lo stallo delle esportazioni in Paesi quali la Cina (e persino la Germania) non può certo sorprendere. Non solo. La caduta globale dei prezzi delle materie prime ha prodotto quella deflazione che ha portato Pechino ha reagire con la svalutazione dello yuan. E il rapporto cinese tra il debito e il PIL è lievitato non per via di un aumento del numeratore ma per la riduzione del valore nominale del denominatore – i prezzi in calo.

Di fatto, oggi l’attenzione si concentra soprattutto sul deprezzamento della valuta cinese. Ma si tratta di una semplice risposta del mercato a una sua precedente sopravvalutazione (l’interpretazione più ottimistica) o di una decisione strategica della Cina per dare impulso alle esportazioni in una situazione economica di deflazione e crollo della domanda? L’ultima ipotesi sarebbe certo più preoccupante.

Per rispondere a questa domanda dobbiamo esaminare innanzitutto alcuni fattori di base. Il tasso ufficiale di crescita della Cina nella prima metà del 2015, pari al 7% ha centrato esattamente l’obiettivo del governo. Fin qui, nessun motivo di seria preoccupazione. Ma la vera domanda è da dove provenisse la sua crescita precedente. Negli ultimi anni la crescita cinese non era trainata dalle esportazioni, bensì dagli investimenti, ai quali va ascritta, anno dopo anno, più di metà della crescita nel periodo 2004  –  2014. Ora, nel primo semestre 2015 la crescita degli investimenti in asset fissi è stata la più bassa registrata in Cina dal 2000 ad oggi. Il motivo va ricercato soprattutto nella contrazione degli investimenti in campo immobiliare, dovuta a un’offerta in eccesso, con numerosi appartamenti invenduti. Un calo del genere riduce la domanda di materiali di costruzione, che a sua volta determina eccessi di capacità produttiva, anche in settori diversi da quello immobiliare. A preoccuparci non dovrebbero essere dunque i dati negativi delle esportazioni (che monopolizzano l’attenzione dei media) bensì quelli degli investimenti.

Quale dovrebbe essere la risposta di Pechino? Mettere in campo un pacchetto di incentivi attraverso la spesa pubblica e gli investimenti, sull’esempio di quanto si sta prospettando in alcuni Paesi europei per il rilancio delle loro economie esangui? O porre mano invece a una serie di “riforme strutturali “? E se, come sembra, l’orientamento cinese fosse questo – che tipo di riforme fare? Non quelle, opinabili, dell’UE, tutte incentrate sulle “rigidità del mercato del lavoro ” e sui tagli dei costi salariali nel settore pubblico, ma riforme volte invece a una ricomposizione dei vari settori dell’economia: dunque un vero “cambiamento strutturale ” nel senso inteso da Luigi Pasinetti, il più importante economista italiano degli ultimi decenni – oggi assente dal dibattito in seno all’Ue  –  secondo cui la priorità non va data alle industrie tradizionali (con capacità produttive in eccesso) ma ai consumi e ai servizi – con un aumento degli investimenti in campi quali il turismo, la salute, la scuola, l’IT.

Non si può escludere che nell’immediato una scelta in questo senso comporti un calo della crescita, precisamente perché a trainarla è stato sempre il settore edile e quello degli investimenti nelle industrie più tradizionali; ma a lungo termine essa potrebbe invece contribuire a riequilibrare l’economia e a renderla più dinamica, consentendo di applicare ai servizi, in diversi settori, le innovazioni finora adottate a beneficio delle industrie tradizionali.

Un altro aspetto spesso trascurato dall’analisi tradizionale è quello degli enormi investimenti cinesi in un campo che sarà probabilmente quello della prossima grande rivoluzione dopo Internet: la rivoluzione verde. L’ultimo piano quinquennale prevede una spesa di 1,7 trilioni di dollari in cinque nuovi settori, che comprendono le energie rinnovabili, le tecnologie ecologicamente compatibili e una nuova generazione IT. Un orientamento che risponde certo alla necessità di contrastare gli altissimi livelli di inquinamento delle città cinesi, ma nasce anche da una visione nuova, analoga a quella della Energiewende (svolta energetica) della Germania, che non si ferma alle energie rinnovabili ma prevede un riorientamento totale dell’economia in senso ecologico, per i sistemi produttivi e per lo stile di vita.

La Cina è tuttora ai primi posti tra gli investitori nel campo delle rinnovabili fuori dai suoi confini  –  soprattutto tramite la China Development Bank (versione cinese della KfW, o Kreditanstalt für Wiederaufbau, la Banca della Ricostruzione tedesca). Mentre in Occidente la finanza privata continua a privilegiare gli investimenti legati all’iper- finanziarizzazione, è il sistema bancario cinese a finanziare l’economia reale di molti Paesi, anche nel campo delle infrastrutture, come ad esempio nel Regno Unito. Così, mentre da un lato la Cina riduce gli investimenti al suo interno e sposta l’epicentro verso i servizi e i consumi, all’estero continua a portare avanti una strategia basata sugli investimenti, non solo in aree sottosviluppate come l’Africa, ma anche in Paesi europei condizionati dall’iper- finanziarizzazione: la Cina oggi investe in infrastrutture Inglesi, mentre le banche Inglesi speculano in operazioni finanziarie. Ovviamente, questi investimenti Cinesi comportano profitti che possono essere utilizzati in per finanziare settori prioritari.

Queste considerazioni sollevano alcuni interrogativi diversi da quelli che sono stati finora al centro delle analisi tradizionali. La prima questione riguarda i cambiamenti interni, l’altra quelli esterni. Sul piano interno, è essenziale comprendere se l’apertura verso il mercato sarà accompagnata da un’apertura sul piano democratico: un fattore chiave per un futuro di crescita “inclusiva “. Sarebbe della massima importanza sapere se il maggiore accento posto dalla Cina su consumi e servizi sarà improntato all’innovazione, come lo sono stati i recenti investimenti nelle industrie più tradizionali, tra cui le telecomunicazioni e le energie rinnovabili. Aziende quali Huawei, al primo posto mondiale nel campo delle telecomunicazioni, o Yingli Solar, una delle maggiori imprese cinesi in quello delle rinnovabili, sono il risultato dell’impegno paziente di capitali a lungo termine. La China Development Bank ha sostenuto le aziende più innovative di questi settori chiave con prestiti dell’ordine di miliardi. Questa politica, sostenuta da un aumento esponenziale della spesa per la ricerca e lo sviluppo, nonché da un forte impulso alla domanda di nuove tecnologie attraverso il piano quinquennale, ha permesso al Paese di entrare nel novero delle nazioni più innovative. Se ora sposterà il proprio baricentro verso i servizi, sarebbe essenziale che il loro sviluppo sia portato avanti alla luce di questa visione. Se riuscirà a farlo, la Cina continuerà anche in futuro ad affermarsi tra le nazioni più innovative.

In secondo luogo, c’è da chiedersi se Pechino preveda di trasformare le proprie istituzioni e organizzazioni per renderle più flessibili e decentrate, con maggiori capacità di adattamento al mutare delle circostanze a livello sia nazionale che internazionale. Per aprire la strada all’innovazione, la Cina dovrebbe superare le rigidezze di un sistema già ispirato all’Unione Sovietica. Oggi gli investimenti cinesi sono in gran parte calati dall’alto, attraverso un organismo potente quale la China Development Bank; servirebbe invece un sistema dinamico e de-centrato, con il contributo di diverse agenzie, sull’esempio di quanto realizzato in Giappone negli anni 1980.

Ovviamente il problema principale è quello di un’azione concertata a livello mondiale. Se in un Paese come il Brasile la crisi politica degenera in crisi economica, o se l’Eurozona continua a ripetere la stessa solfa imponendo l’austerità a un Paese dopo l’altro, con la conseguenza di insabbiare sempre più la crescita, anche i problemi della Cina rischiano di aggravarsi. E a questo punto dovremmo riportare l’attenzione sulla nostra incapacità di reagire in maniera flessibile e dinamica, in seno all’UE, alla crisi che continua ad opprimerci: una tragedia economica e politica di proporzioni epiche.
(Traduzione di Elisabetta Horva)


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